La modernità, da Baudelaire in qua in letteratura, dagli impressionisti in qua in pittura, da Wagner in qua in musica, si è spesso costituita sulla cifra (antagonistica e segretamente nichilista) dell’unidirezionalismo, delle demitizzazioni e delle desacralizzazioni. Con la conseguenza del trionfo dell’imperialismo della nuova Ragione. In queste lande desolate l’Occidente esercita il suo gusto, il suo immaginario, la sua euristica entro un’aura di libertà estremamente soggettiva, dove ognuno si regola da sé nell’ambito della poesia, delle arti (tradizionali e nuove), della religione con invenzioni personali e fatte in casa. Ormai, in Occidente, come scrive René Guénon, non siamo più eredi di nessuno. Nello stesso tempo, però, ci veniamo accorgendo che la mancanza di radici e di punti di appoggio a griglie di rassicuranti certezze inducono un latente senso di smarrimento, come rilevano psicoanalisti, sociologi, antropologi, di fronte alle reazioni di individui e comunità alle incalzanti minacce del terrorismo e del fondamentalismo religioso.

Sotterraneamente già da tempo, però, veniva insorgendo, consapevolmente o meno, un bisogno crescente, nella poiesi artistica e non solo, da parte del nostro tempo, di interrogazioni e di assaggi di un indefinibile sfondo mitico, di esplorazioni di nuove frontiere di relazionalità anche con la nostra storia e con la nostra archeologia sconosciute del sottosuolo della coscienza, oltre che con le potenzialità dell’immaginario mai sopite e in via di risveglio e di valorizzazione. Nel nuovo orizzonte di attesa, ovviamente, come all’alba di un altro ciclo vitale, i modi e gli strumenti di approccio non possono che essere adeguati allo Zeitgeist di questo nostro mondo, che Baudrillard chiama “postumo” (postverità, postmaterialità, posttangibilità). In sostanza, fondato su nuove griglie, dove il concettuale, il virtuale, lo sperimentale, l’immagine stessa sono le cifre connotative. Dove lo spazio si può aprire, sfogliare, godere nelle sue sospensioni di meraviglia e di stupore, disvelare nella sua declinabilità dinamicamente sempre altra.

Esemplare è il caso Luigi Ghirri. Un fotografo, cioè un artista dalle straordinarie risorse, che si serve della fotografia per narrare i luoghi come realtà tutte da scoprire, molto oltre gli schemi scontati delle ricezioni abituali e passive, e per cambiare la nozione ordinaria di paesaggio. Ci aiuta molto a scoprire questo itinerario il volume di Marina Spuria e di Jacopo Benci, due studiosi italiani, dal profilo diverso, che fondamentalmente vivono all’estero. Ambedue attrezzati e duttili fruitori del metodo interdisciplinare, si distinguono per il fatto che Spuria è integralmente impegnata nell’ambito della ricerca critica, mentre Benci è anche versatilmente aperto alla creatività, sul versante della fotografia, ma con dichiarati intenti artistici ispirati dalla concettualità. Luigi Ghirri, a cui è dedicata la loro monografia, ha avviato una campagna di valorizzazione della fotografia come medium, che spalanca le porte all’epifania dell’insolito e perfino dell’inquietante, in senso psicoanalitico, come realtà che è sotto gli occhi di tutti, alla maniera della Lettera rubata di Poe, ma non viene intercettata dallo sguardo ordinario e dalle sue presunzioni di cogliere possessivamente tutto. Appassionato dalla cultura americana, da Walker Evans a William Eggleston, che già al tempo del New Deal si misura con la prospettiva essenziale del confronto con i luoghi, viene a contatto anche con Aldo Rossi, da cui è suggestionato per gli scandagli dei volumi elementari nel paesaggio. A mano a mano, viene sempre più perfezionando il modo di inquisire la “zona incerta” (la “Zwischenstellung”) dei paesaggi e dei luoghi, che in genere è latente dietro la soglia ingannevole delle figure standardizzate e vulgate. È questa una realtà, che è lì in attesa di essere aiutata a esporsi alla luce del sole, di entrare  e acquistare cittadinanza nel nostro immaginario. Il quale è suggestionato dal paesaggio più di quanto si pensi, perché innanzitutto è paesaggio esso stesso. Dice bene Leopardi, quando afferma che un po’, soprattutto nella fanciullezza, siamo tutti una vibrazione della relazionalità con i luoghi. Non per nulla, il paesaggio e i luoghi hanno fatto nido e mito, fin dai primordi, per i riti religiosi e per le accensioni dell’immaginario nelle fiabe, in poesia, nelle arti figurative, in musica. Non per nulla, il paesaggio e il luogo costituiscono tuttora le prime ed essenziali sfide per l’architettura e l’urbanistica.