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intervista a Nigel Coates

Guido Incerti: Questo numero di area è dedicato al tema del divertimento e dello svago: che cosa intendi per divertimento?
Nigel Coates: Il divertimento per me è scappare dalle regole dell‘architettura. In questo mi sento un tardo-situazionista nel senso che il concetto delle derive, della possibilità di rivelare cose inaspettate, è un bene che dobbiamo imparare ad utilizzare di più, specialmente noi architetti. La cultura architettonica cerca sempre di imporre delle regole, mentre invece dovrebbe essere in grado di trasportarci in situazioni inaspettate. Per me questa è stata una lezione importante. Continuare a lavorare sull‘architettura in modo da conferirle un significato e con esso giocare sulle nostre sensibilità più ludiche.
Margherita Caldi Inchingolo: Come crede sia cambiata l‘idea del divertimento negli ultimi anni, in seguito all‘avvento delle nuove tecnologie mediatiche e di internet?
N.C.: Penso che internet, in modo positivo, abbia permesso una partnership con le possibilità di muoversi in città…
M.C.I.: Ma non ci ha forse privato dell‘effetto sorpresa?
N.C.: Non necessariamente, infatti il termine “surfing”, riferito ad internet, significa vagare, ed è ciò che le persone fanno nella rete. Da un lato arrivano più informazioni, dall‘altro bisogna stare attenti in quanto è necessario filtrare e approfondire. Penso che il telefonino e internet abbiano aperto nuove possibilità riguardo alla città, cose che oggi ci sembrano normali 20 anni fa, naturalmente, non lo erano. Grazie al cellulare adesso è possibile che le persone si riuniscano all‘improvviso, dandosi appuntamento in un luogo particolare. Viceversa esiste anche la possibilità che le persone possano isolarsi, vivendo in una città virtuale, ma la scelta, a questo punto, è loro. È interessante osservare come le diverse culture usano il cellulare e più in generale la tecnologia. In Italia avete una gran voglia di chiacchierare, di vedere persone, incontrare gli amici. Altre culture invece vivono nel “mondo cellulare”. E quest‘ultimo è vissuto anche nei momenti collettivi. Queste persone evitano così di essere presenti al cento per cento in un momento reale e si trovano ad essere immerse in una bolla fluttuante tra lo spazio fisico e lo spazio virtuale.
M.C.I.: Quindi è vero che ci si perde meno facilmente, si esplora di meno e si rimane conseguentemente meno sorpresi?
N.C.: Per me è un nuovo modo di usare la città; stamattina, ad esempio, sono uscito dall‘albergo e dopo solo tre passi mi sono perso, ritrovandomi in un posto sconosciuto e mi sono divertito a scoprire situazioni inaspettate. Durante la notte aveva nevicato ma lungo la mia camminata mi sono imbattuto in una installazione che prevedeva neve finta. Quindi sulla strada la neve finta si confondeva con quella vera. Divertente! Passando davanti alla chiesa del SS. Sudario ho visto la cupola del Guarini in restauro, con i pannelli di protezione delle impalcature che riportavano stampati i prospetti reali creando un effetto assolutamente surreale. Perdendosi si scopre come abbiamo imparato a curare meglio le nostre città. Torino ad esempio (dove si è svolta l‘intervista N.d.A) ha fatto molti sforzi per rinnovarsi in occasione delle Olimpiadi. Il risultato è una urbanità più orgogliosa. Un organismo più consapevole del proprio valore. E che di conseguenza è maggiormente vissuto. Se ripenso ad anni fa in Italia o in altre città europee il modo di essere urbano era un...”meno” generale. Meno gente per strada, meno attività, meno di tutto. Specialmente la sera. Oggi le persone sono alla ricerca del divertimento, e questo fa sì che il divertimento sia diventato qualcosa di commerciale che guida e indirizza il pubblico. Di conseguenza non tutti possono, e vogliono, vivere la fantasia di perdersi nelle città.
G.I.: Facendo architettura c‘è l‘eventualità di progettare luoghi del divertimento ma in questo modo c‘è il rischio che l‘architetto possa incanalare le persone verso un‘idea omogenea? Come si può immaginare un‘architettura del divertimento che sia aperta all‘immaginazione di ogni visitatore?
N.C.: Il progetto di una discoteca è divertente quando ha in sé caratteristiche provenienti da qualche altro luogo e che recuperano, ad esempio, la narrativa di una casa, di una città, di un aeroporto, in modo che le persone possano vivere dentro una struttura che racconta una storia. Un luogo dove il pubblico può solo bere o ballare non è sufficientemente trasgressivo. L‘importante per lo svago è avere l‘impressione di infrangere una regola. Un altro esempio è quello dei negozi: in un mondo commerciale, dove la gente è più informata e più contenta di perdersi dentro l‘universo degli acquisti, lo shopping è un tipico modo di svagarsi. Anche a “La Rinascente” di Milano, quasi unico esempio di grande magazzino in Italia, (in Inghilterra siamo più abituati a intere strade composte di grandi magazzini come Oxford Street) il concetto è comunque quello di perdersi in qualcosa di inaspettato: puoi farti un‘idea della ripartizione dei settori ma il successo del magazzino dipende dalle persone che vanno “oltre” il prodotto che vogliono acquistare. È lo stesso procedimento che viene utilizzato per i Casinò di Las Vegas e diametralmente all‘opposto di quello di un semplice supermercato che, invece, guida il compratore attraverso un percorso che permette di passare velocemente tra i prodotti. Il grande magazzino fa vedere tutto quello che si può comprare in una unica occhiata. Naturalmente c‘è l‘arte del merchandising, del retail design, il sistema di esporre la merce, ma c‘è anche la volontà di far riflettere lo “shopper” in una maniera inaspettata, alla quale non aveva pensato prima dell‘ingresso. L‘Ikea, nonostante il percorso guidato, è un ingranaggio intelligentissimo, un perfetto sistema di svago contemporaneo. Il pubblico viene guidato dentro “la casa” di cui vede le stanze, poi con pochi passi, quasi zoomando, raggiunge alcuni prodotti e infine arriva ai magazzini, quasi delle cantine, da cui portare via i prodotti. Il magazzino-casa rende l‘esperienza astratta dello spazio un‘esperienza di oggetti che trasformeranno a loro volta la casa-spazio delle persone. Come architetto, come progettista, come commentatore culturale, è importante considerare il singolo individuo ad un livello più alto di quello delle forze puramente commerciali. E questo è il problema dell‘architetto, perché se lavora per un‘azienda, Ikea ad esempio, dovrà valutare attentamente tutto lo spettro di conoscenze cui abbiamo accennato prima. Ma chi le terrà realmente in considerazione? L‘architetto o Ikea? Generalmente l‘architetto lavora sulla città, sui masterplan, sugli edifici, per creare luoghi, possibili identità locali e cultura del territorio, e può venire a trovarsi in contrasto con la pura esperienza commerciale su larga scala, provocando un grosso problema.
M.C.I.: Qual è l‘icona architettonica che associ all‘idea di svago e divertimento?
N.C.: Non credo che una sola icona possa essere sufficiente. In un edificio come il museo di Bilbao, ad esempio, lo spazio interno è pensato secondo l‘idea dello svago “costruito dentro”, infatti Rem Koolhaas l‘ha interpretato come un centro commerciale. La tipologia del Guggenheim è questa: attraversare le diverse gallerie, linkando tra una e l‘altra, sfruttando l‘esperienza del perdersi; anche la Tate Modern oppure il Moma, seppur con una architettura che è maggiormente protettiva, rappresentano una idea dello svago che si identifica con l‘abbandonarsi a esperienze più significative. Oggi abbiamo imparato come dare alle persone maggiori possibilità per perdersi. Ormai sappiamo in che modo far credere agli individui di avere più opportunità di scelta, e questo rientra nell‘ideologia moderna di una società che non è altro che un mondo finto, fatto di specchi.
G.I.: Quindi il concetto di divertimento è legato all‘idea di perdersi. Al contrario, però, sembra che la tecnologia moderna guidi il nostro vivere nello spazio e non ci permetta più di farlo.
N.C.: È vero, ma paradossalmente, la tecnologia fornisce all‘individuo quella sicurezza che gli consente di smarrirsi sempre di più, proprio perché non ci perdiamo mai completamente. È come un bambino che in un posto pubblico si allontana dai genitori, magnificando la possibilità di essere indipendente, ma ad un certo punto si mette a piangere per la paura causando l‘immediato arrivo dei genitori. È stato ritrovato, però, per quei pochi istanti o minuti, ha celebrato, in mezzo a sconosciuti, la gloria di essere libero.
M.C.I.: Per Nigel Coates è più facile fare oggetti per il divertimento o un‘architettura per il divertimento?
N.C.: Per me l‘oggetto del divertimento, architettonico od oggettistico, deve esser intelligente e riuscire a condurti in mondi inaspettati. Non può essere un semplice giocattolo. Se penso ai prodotti di Alessi quelli che apprezzo maggiormente sono quelli che hanno un messaggio nascosto. Alessi ha capito che il divertimento è un sentimento importante, e non tutte le cose devono essere obbligatoriamente serie. Quelle di maggiore successo presentano un sottomessaggio che viene allo scoperto nel tempo. Sono oggetti o architetture che hanno la possibilità di toccare la nostra sensibilità di bambini, quella sensibilità che cerchiamo di scacciare. Anche il sesso ad esempio fa parte della cultura infantile. L‘esplorazione del corpo è uno scambio di possibilità, un modo di comunicare, una seduzione. In architettura spesso è difficile arrivare a questo livello di sensibilità, anche se nell‘istallazione che ho effettuato all‘ultima biennale di Venezia ho cercato di lavorare sulla comunicatività della seduzione, anche se ad un livello molto leggero. Ormai è frequente vedere passare sui tram pubblicità con uomini o donne nude spesso in pose lascive, ma quando arriviamo a casa, tra le mura domestiche, siamo inesperti nell‘interpretare questi segnali. Siamo evoluti e coscienti riguardo a ciò che ci provoca piacere ma quando incontriamo queste suggestioni nel mondo che ci circonda risulta difficile accettarle. Viviamo una sorta di discordanza, una discrepanza. Sto lavorando proprio in questo campo con l‘intento di creare delle strutture confortevoli che però siano in grado di instillare un senso di incertezza, progetti che conducano verso un mondo pauroso, che tocchi il nostro subconscio e la voglia di esplorare il piacere, dischiudendo un universo vertiginoso nel quale sperimentare situazioni imprevedibili. Tornando all‘architettura il divertimento nell‘edificio ha bisogno di essere un ibrido, un contrasto di struttura, di possibilità e di immagini. Una soglia che apra a molteplici possibilità. Negli anni Novanta progettai a Istanbul un night-club all‘interno di una ex tipografia: 3000 mq, su tre livelli con ristorante, bar, pista da ballo, privé, intervenendo solo sugli interni poiché la struttura esterna era stata mantenuta identica. Dietro la facciata originale inserimmo delle vetrate in vetro sabbiato con un pattern ispirato alla tradizione turca, come anche tutti gli interni. Immagini familiari ma nel contempo destabilizzanti: un paesaggio di divani comprendente un sofà lungo 30 metri, divani onda, curve antropomorfiche, tutto realizzato da maestranze del luogo. E poi una sequenza di altri ambienti con riferimenti al bazar, tende colorate. La pista da ballo aveva, invece, un rimando al sistema aeroportuale. Una metafora importante per me, perché trovo l‘aeroporto un luogo molto divertente, soprattutto per l‘idea del movimento che esso ispira, tanto che il set del deejay era stato sistemato su uno dei montacarichi utilizzati per caricare i bagagli negli aerei. Cercammo un pretesto per realizzare un luogo dove i visitatori, seguendo il flusso libero del movimento interno, potessero perdersi creando delle storie personali, e usare contemporaneamente il linguaggio aeroportuale e quello dell‘arte decorativa turca rese il locale molto popolare tra gli artisti locali e coloro che visitano Istanbul. Credo che il progetto ebbe successo proprio perché creava una struttura, invisibile dall‘esterno, che il pubblico doveva scoprire a poco a poco e dove poteva inventare un modo di vivere, un parallelo tra il loro mood e l‘architettura del luogo.
G.I.: Partendo dal tuo lavoro dove spesso l‘architettura va indossata dal corpo, quasi fosse un abito o un accessorio, credi che l‘architettura si stia tramutando in un vestito necessario alla città, alla sua anima sexy, per attirare finanziatori e fare svagare gli uomini? Oppure, facendo un parallelo con chi si diverte facendo shopping, la città vuole cominciare a divertirsi indossando nuovi abiti?
N.C.: La metafora è buona, perché indossare un vestito vuol dire toccarsi e avvolgersi in un modo molto intimo. Però ora siamo in un momento di disagio per l‘architettura che dichiara il suo essere “icona” e bisogna lavorare su un livello più sottile e nascosto. Tornando ai vestiti, la metafora è buona perché rende l‘idea di come possiamo invitare le persone ad avere un contatto con lo spazio, ad avvicinarsi alle cose senza giudicare gli oggetti solo da lontano. Se infatti, attratti, ci facessimo coinvolgere dischiuderemmo un altro mondo. Quello degli interni ad esempio. Un mondo che permette molte possibilità, e che gioca con l‘esterno. Quest‘ultimo infatti può promettere tutto o niente, come nel caso del Club di Istanbul. Ma successivamente, se ci avrà attratti, potrà lasciare il campo a esperienze inaspettate. Mostrando così il potere dell‘architettura, che è paragonabile al potere della mistica religiosa. L‘esempio che mi viene in mente è quello del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna: nei mosaici interni si percepisce tutto un universo, mentre all‘esterno è solo un piccolo, rassicurante, edificio romanico in mattoni. Un‘idea, per così dire, ripresa successivamente dal teatro e nell‘epoca contemporanea anche dal mondo dello shopping, che in questi tempi gioca sulla seduzione per condurci oltre la pura immagine.
G.I.: L‘anima sexy della città, che spesso citi nei tuoi scritti e nelle tue teorie urbane, come si diverte?
N.C.: Il problema è che l‘anima sexy della città è già stata compresa dalle strutture commerciali, per cui dobbiamo continuamente reinventare l‘originalità. Dobbiamo creare contesti che siano nelle mani delle persone, non delle istituzioni, un‘idea di stampo “sessantottino” che riporta costantemente in gioco l‘importanza della narrativa. La narrativa infatti è un tema su cui ho molto lavorato negli anni ‘70 e ‘80, e che dà al nostro lavoro molte possibilità. La narrativa, o meglio un registro narrativo, può aiutarci a immaginare, progettare e creare dei luoghi che non hanno, come ultimo fine, solo il valore della convenienza. Valore che io non cerco, dato che inseguo qualcosa di più.
M.C.I.: La Biennale di quest‘anno è stata fortemente criticata, anche dagli architetti, per la mancanza di architettura “canonica”. Nonostante ciò è risultata l‘edizione della Biennale più visitata. Forse questo suo aprirsi in maniera così manifesta ad altre discipline artistiche ha suggerito nuovi sbocchi e interessato più persone...
N.C.: Si sapeva già dall‘inizio che questa Biennale sarebbe stata criticata e che si sarebbe detto: “Ah questi architetti che vogliono fare gli artisti”. Io personalmente ho cercato di non fare l‘artista, nel senso stretto del termine. Ma devo anche ammettere che io, sentimentalmente lavoro con mezzi artistici. È l‘istinto che mi porta a lavorare in questa maniera. In Inghilterra abbiamo una classe di critici che apprezzano le scatole di cemento quadrate, e quando vedono una Biennale che cerca di portare il livello più in alto, pensano che l‘architettura si stia autodistruggendo. Questi critici hanno paura della città e di prendere quello che essa offre. Hanno paura della capacità, propria della città, di avvicinarsi alla sensibilità delle persone e alle sensazioni vere. Tornando alla Biennale, alcuni architetti invitati in realtà non hanno cercato di fare qualcosa d‘impatto, di forte. Hanno semplicemente progettato qualcosa di facile. Ho lavorato cinque, sei mesi su Hypnerotosphere (il titolo dell‘installazione presentata alla Biennale N.d.A), però alla fine mi è parsa smarrita all‘interno di quel “supermercato” di cose diverse. Se da un lato noi architetti siamo simili e ci rispettiamo come gruppo di creativi, dall‘altro ci sentiamo molto distanti e ognuno tende all‘egocentrismo. La cosa che mi ha colpito, e confuso, è quanti architetti hanno costruito degli edifici dentro le corderie. Il titolo della Biennale era “Architecture beyond building” e molti, tra cui anche Gehry, cosa hanno realizzato se non edifici? Molti architetti hanno il bisogno di vedere la loro architettura mostrata con maquette e disegni e questo è un motivo sufficiente per non farlo. Aaron ha fatto bene...