area 104 | introverted architecture

foto by Antonio Ottomanelli

testimonianza fotografica effettuata a Sant‘Eusanio Forconese, Villa Sant‘Angelo e Casentino il giorno 17 aprile 2009.

La questione della ricostruzione e le preesistenze ambientali
Ogni volta che un centro storico o un qualsiasi contesto consolidato è sottoposto a distruzioni drammatiche e repentine – negli ultimi cinquant’anni in Italia non più eventi bellici, ma tragici effetti di catastrofi naturali – si pone la questione di come ricostruire luoghi e spazi sottratti alla vita collettiva, dispersi sul piano fisico ma presenti e vivi nella memoria delle persone. Ogni volta, oltre alla ferita non rimarginabile della perdita di vite umane, all’architettura è demandata una presa di posizione di natura disciplinare rispetto alla reazione e ai comportamenti conseguenti alla perdita dei luoghi e degli edifici che sono parte integrante di una identità smarrita e offesa. Qualsiasi decisione si scontra, sul piano etico, con il dolore e la vita delle persone, con il desiderio di riparare e annullare gli effetti di un terremoto o di un’alluvione, aspirazioni che contrastano con la necessità di agire con tempestività e immediatezza. Allora le domande e le scelte divengono stringenti, restauro o nuove case? Recupero dei tessuti edilizi danneggiati o cittadelle di nuova fondazione? E nel caso di ricostruzioni integrali, realizzare ”dov’era e com’era” o ricercare una nuova opportunità? Proviamo a trovare, con pacatezza e cercando di resistere all’emozione, una risposta meditata sapendo che le scelte di oggi influiranno in modo rilevante sulla vita delle persone e delle popolazioni colpite. Inoltre, poiché nel nostro paese l’esperienza di questi eventi è tristemente profonda, tentiamo una riflessione supportata sul piano della storia a fronte di una complessità del quadro esigenziale che non consente scorciatoie o decisioni unilaterali. Secondo una linea di principio dettata dall’emergenza, di fronte alla prospettiva di persone e famiglie che vivono l’incredibile disagio della vita nelle tende o negli alberghi delle città vicine, l’imperativo principale sembrerebbe dettato dal tempo: piuttosto che l’attesa, inevitabilmente più lunga, connessa con l’azione del restauro, del consolidamento e del recupero delle case e dei tessuti edilizi originari, sembrerebbe più opportuno e veloce agire attraverso la ricostruzione in altro luogo di nuove abitazioni. Tuttavia, superata l’emergenza del breve periodo e costruite in pochi mesi residenze pari al numero degli sfollati, ci troveremmo a gestire la ricostruzione di città fantasma, quelle originarie ormai abbandonate e prive di abitanti, e a coesistere con la perdita di identità, di appartenenza e radicamento di intere popolazioni.

views of the main square of Villa Sant‘Angelo - photo by Antonio Ottomanelli
views of the main square of Villa Sant‘Angelo - photo by Antonio Ottomanelli

I cittadini dei centri storici minori sedimentati e stratificati dalla storia e dal tempo verrebbero inevitabilmente confinati in contesti nuovi concepiti come l’esito reale di quella stessa emergenza che si rappresenta fisicamente in un’immagine che è lo specchio e il ricordo perenne del disastro. Se gli effetti degli eventi sono distruttivi e catastrofici da non lasciare possibilità di recupero, se non esiste alcuna opportunità di salvare luoghi e testimonianze della vita vissuta da intere generazioni, allora la via non può essere l’integrale ricostruzione in falso antico di qualcosa che non esiste ma, necessariamente e dolorosamente, la creazione di una nuova città che richiede però un suo disegno, una sua genesi, un suo tracciato, un suo tempo anche progettuale che mal si concilia con l’estrema urgenza e l’immediatezza della reazione. Viceversa, e sembra il caso dell’Aquila e dei suoi dintorni, se le distruzioni e i danni pur ingenti consentono di salvare l’immagine e la sostanza urbana, i tracciati, gli spazi, i materiali e le testimonianze fisiche della vita delle persone, allora l’emergenza deve conciliarsi con la consapevolezza dell’importanza della vita della città che è a sua volta parte integrante e costitutiva della vita dei suoi abitanti. Allo stesso modo e per le stesse motivazioni per taluni edifici e monumenti di particolare rilevanza storico-architettonica il ”dov’era e com’era” non può rappresentare la resa della nostalgia e della conservazione rispetto al nuovo, quanto il riconoscimento di un’eccezionalità che ci consente ancor oggi di camminare sotto il campanile di San Marco a Venezia o attraversare il ponte Santa Trinita a Firenze: progettato a metà del Cinquecento dall’Ammannati, distrutto dalle bombe della Seconda Guerra Mondiale, poi ricostruito in assoluta fedeltà all’originale sotto la guida di Giovanni Michelucci. Per gli altri edifici dove il restauro e il recupero non sono possibili la contemporaneità dovrà confrontarsi con le preesistenze ambientali secondo una lezione e un dibattito che affonda le proprie radici nella ricostruzione post bellica, quando gli architetti italiani hanno dato prova di particolare capacità nella lettura e nell’interpretazione dei fatti urbani giungendo, in taluni casi singolari, a risultati di assoluto e riconosciuto valore.