area 108 | Mexico City

Quando sono arrivata a Città del Messico per la prima volta, nell’agosto del 2006, realizzando finalmente un sogno, la città era in mano al popolo di Andrés Manuel López Obrador!
Sono arrivata in autobus dal nord, dopo aver attraversato gli stati di Aguascalientes, Guanajuato, Michoacán, luoghi fantastici per un europeo d’occidente, di irreale quiete, di pacifica armonia, le città di Guanajuato, Zacatecas, Morelia, Pazcuaro, fino al Distrito Federal. E poi Città del Messico che, inaspettatamente, in quei giorni viveva una condizione assolutamente unica: era in corso una occupazione simbolica per protestare contro i brogli elettorali perpetrati nelle elezioni politiche, vinte, per poche migliaia di voti, dalla ultradestra religiosa già al potere. Il popolo della sinistra si era raccolto da tutto il Paese per una resistenza civile e pacifica, conclusasi dopo un parziale riconteggio dei voti, che ha visto la conferma del risultato.
L’atmosfera era irreale, il centro storico della città, che è anche politico, era sotto assedio, ma cosa assolutamente straordinaria era l’occupazione del Paseo de la Reforma, asse storico voluto dall’imperatore Massimiliano d’Asburgo nel tempo divenuto asse strutturante lo sviluppo urbano, nonché arteria principale di attraversamento del centro; chilometri e chilometri chiusi al traffico in una delle città più grandi e più popolate del pianeta che, tranne in pochi punti, non era attraversabile neanche in senso trasversale.
Un nastro ininterrotto di grandi tende da campo, sotto le quali migliaia di persone si alternavano ai picchetti, centinaia e centinaia di bagni chimici che assicuravano i servizi, cucine da campo, strutture sanitarie, e poi cavee improvvisate per le proiezioni, per i concerti, per i comizi, per gli spettacoli di piazza, momenti di aggregazione e dialettica politica, poche sedie e panche di legno che creavano luoghi. Fino all’ultimo tratto, dove l’occupazione continuava su Avenida Francisco Madero per raggiungere lo Zocalo, che non è solo la piazza centrale di Città del Messico, ma è il centro simbolico dell’intero Paese, con l’immensa Cattedrale e il Palacio Nacional. Lo Zocalo era stato trasformato in un gigantesco palcoscenico, occupata da trentuno tendoni in rappresentanza di ogni Stato della federazione messicana a circondare lo sterminato palco per i comizi di Obrador detto Amlo. In questo luogo le pietre degli edifici avevano assunto la stessa area di provvisorietà delle tende e dei bagni chimici, l’illuminazione urbana si mescolava con quella delle coloratissime luminarie da festa montate per celebrare il giorno dell’indipendenza messicana, il 16 settembre, con la speranza di ascoltare dal balcone del Palacio Nacional il tradizionale grido “Que viva México!” dalla bocca di Amlo. La città era così letteralmente tagliata in due o forse in mille parti. Era come guardare attraverso un caleidoscopio, colori, luci, automobili, persone, si mescolavano e la città stessa appariva sotto mille forme e immagini diverse. A rendere tutto quasi irreale era il silenzio dei motori. Si consumava così l’”eccezionale” estate del 2006, poi come se nulla fosse stato Città del Messico è ritornata la multiforme capitale forse più grande del pianeta.

... nombres, sitios,
calles y calles, rostros, plazas, calles
estaciones, un parque, cuartos solos,
manchas en la pared, alguien se peina,
alguien canta a mi lado, alguien se viste,
cuartos, lugares, calles, nombres, cuartos...
Octavio Paz

Una città straordinaria non può essere raccontata attraverso la descrizione di una megalopoli uguale a tante altre. Da questa parte dell’oceano in pochi sanno qualcosa di Città del Messico, oltre i numeri esorbitanti che la riguardano: 18 milioni di abitanti, 4.2 milioni di residenze, 529 milioni di edifici commerciali e di servizio, 53 mila stabilimenti industriali, che con viabilità, servizi e infrastrutture costituisce 1.926 chilometri quadrati di are urbana con una densità media di 9.300 abitanti per chilometro quadro.
Questa città è stata considerata in origine un paradiso, gli Aztechi dopo lunghe peregrinazioni scelsero questo luogo, per fondare la loro Tenochtitlán, era circa il 1325. Un lago cinto da alte montagne con al centro una piccola isola artificiale sulla quale sorgeva, emblema della tecnica costruttiva, la capitale del grande impero atzeco, conciliando il prodigio divino – ”en medio de un lago, un águila sobre un nopal devorando una serpiente” – e la strategia militare. La città di fondazione era disegnata da una quadricola, fatta dalle vie pedonali e dai canali, questi rappresentavano le più importanti vie di comunicazione; l’isola era poi collegata alle sponde del lago da tre larghe strade. La zona centrale dell’isola era occupata dal “recinto ceremonial” che condensava nella sua architettura la religiosità e la tecnica costruttiva e artistica di quell’antico popolo.
La tradizione azteca vuole che il tempio principale abbia un tempo di vita, ogni volta al precedente si sovrappone il nuovo, così anche a Città del Messico gli archeologi hanno ritrovato cinque sovrapposizioni, l’ultima delle quali dovrebbe risalire alla fine del Quattrocento. È da sempre una città che cresce su se stessa, ma rinnovandosi ogni volta; non è una semplice giustapposizione di strati diversi, ma è il nuovo che ogni volta porta avanti la vita della città. Il rapporto tra l’antica città e la geografia del luogo sembra svanito con il passare del tempo, il lago è stato drenato e poi prosciugato, ai canali si è sostituito un intreccio di strade sempre più fitto, eppure volendo “descrivere”, nell’accezione della descrizione come atto interpretativo, la città oggi si può affermare che la sensazione fisica dell’essere in un immenso luogo che ti accoglie è ancora forte; seppure è una città ormai priva di limiti e confini costruiti, basta alzare lo sguardo e, in una giornata tersa, in lontananza vedere la corona dei monti che la cinge. Si percepisce il senso del finito.
Molti di coloro, architetti, urbanisti, critici ma anche scrittori, che hanno detto o scritto di Città del Messico hanno raccontato dell’atterraggio su questa sterminata conurbazione, dall’aereo che scende si percepisce l’immensità, la densità, perché solo dall’alto è possibile coglierne l’attuale frammentazione; ma basta salire sulla Torre Latinoamericana per vedere come l’immensità sia racchiusa in uno spazio invece delimitato, come l’orografia sia parte di questa grande costruzione e di come in fondo ne abbia diretto lo sviluppo. L’uomo e la sua furia distruttrice hanno inveito contro la natura, ma questa è sempre più forte; la memoria di quello che è stato, la memoria dell’acqua che invadeva un tempo la vallata è memoria della città, materiale della sua crescita e trasformazione.
Come tutte le città veramente grandi, anche Città del Messico non può essere analizzata, né raccontata in dettaglio attraverso la sua struttura fondativa, ma forse proprio la geografia e la sua condizione orografica e naturale possono aiutare oggi a cercare una “figura urbana” diversa, non filtrata da dati e statistiche, una idea di città legata a tutti gli elementi che contribuiscono alla sua essenza. Ha scritto Ignasi de Solà-Morales che le vicissitudini della forma urbana sono “la historia de una pasión”, ed ancora “la metrópolis, ciudad del tiempo presente, se alza como nuevo obscuro objeto del deseo para la arquitectura y los arquitectos”, dovrebbe essere questo il titolo per una nuova storia della città moderna a partire dall’architettura, perché comunque sia la città continua ad essere il luogo dell’architettura. Ma è legittimo chiedere se oggi sia possibile parlare di una architettura di Città del Messico, provare a muovere dalla sua struttura e dalla sua architettura per tentare di raccontare la città. A partire dagli anni ’30 Città del Messico è stata protagonista di un fermento culturale e politico straordinario, figure di intellettuali e artisti ne anno segnato il cammino e l’evoluzione culturale, conservando sempre una specificità che viene da una tradizione antica e profonda; gli europei che vi si sono rifugiati ne sono rimasti stregati, da Tina Modotti ad André Breton, da Artaud a Majakovskij, Max Ernst e Michailovic Ejzenstein, Max Cetto e tanti altri.
Anche l’architettura è segnata negli stessi anni da figure molto significative, da Villagrán García a Obregón Santacilia, poi la generazione cresciuta nel mito della modernità e di Le Corbusier, con Juan O’Gorman e Juan Legarreta, fino a Mario Pani, la cui ricerca compositiva ha un ruolo importante nell’evoluzione dell’architettura, specialmente residenziale, e della struttura urbana; ci sono poi alcuni complessi come la Città Universitaria, realizzata su masterplan di Pani stesso e di del Moral in cui la modernità entra in un rapporto dialettico con la natura imponente del luogo,
e il complesso Jardines del Pedregal, su progetto di Luis Barragán, che rappresentano esempi di sperimentazioni architettoniche a scala urbana, mettendo insieme architetti anche distanti tra loro, ma che lavoravano tutti in quegli anni alla costruzione di una architettura moderna che fosse però messicana, ed al contempo alla riconoscibilità della città, che si dotava di importati infrastrutture culturali, provando così a progettare il suo sviluppo ed a sperimentare i sogni di modernità post-rivoluzionaria del popolo messicano e della sua “intelligentia”.
Gli intellettuali del tempo sono ancora oggi indicati come i maestri messicani, di cui Barragán è senz’altro il più noto nel mondo, è al suo lavoro che si riconosce la sintesi e l’esaltazione dei caratteri di un’architettura “regionalista” messicana, riuscendo a mediare realmente con il proprio sentire fino ad avvicinarla all’ascesi mistica cui tendeva l’uomo Barragán. Ma l’architettura di tutti coloro che hanno lavorato in quegli anni, avviando l’evoluzione dell’architettura locale, è un’architettura urbana, che si confronta con la città che cresce, che diventa metropoli, e un’architettura moderna messicana. Sulla questione della modernità messicana è ampio il dibattito, si può affermare che la modernità in questo Paese è più che altrove frutto di una serie di circostanze temporali, ed è intrisa delle caratteristiche specifiche e profonde del Messico nella sua complessità e totalità. Oggi c’è una vasta letteratura su Città del Messico, d’altronde è ripetitivo esercizio di molti scrivere della megalopoli, tema intrigante ma spesso generico, dal quale non sono esenti coloro che si occupano di architettura. È difficile e rischioso cimentarsi nel parlare di architettura della città, della megalopoli del XXI secolo con la sua immensità, con i suoi incommensurabili problemi, ma ritengo possibile, pur se altrettanto rischioso, poter interpretare la città a partire dalla sua conformazione policentrica, in cui ogni realtà sembra chiudersi per darsi dei limiti e confini, laddove questo aiuta anche ad affermare un’identità. Il policentrismo di Città del Messico è dovuto in larga misura alla sua conformazione fisica ed alla unicità dei luoghi orografici. Le sedici delegazioni in cui è suddivisa hanno caratteristiche proprie e diverse vocazioni culturali e funzionali, in taluni casi identità forti e consolidate nel tempo, che gli attuali strumenti di pianificazione urbanistica tendono a rafforzare attraverso i piani delegazionali. Negli ultimi decenni le infrastrutture, in particolare di collegamento fra le varie pareti della città, sono state potenziate, sia con la viabilità che con la rete della Metropolitana. Quest’ultima con le sue 12 linee e circa 175 stazioni, trasporta ogni giorno più di 15 milioni di persone, è la più grande dell’America Latina, e come flusso è seconda solo a New York e Tokyo.
La quantità enorme di persone che vive di giorno Città del Messico o che semplicemente l’attraversa in auto o con i mezzi pubblici, rende ancor più mutevole il volto della città; moltitudine e frammentarietà, per loro stessa natura non codificabili, hanno ormai preso il sopravvento, e solo a partire dalla configurazione fisica della città è ancora possibile comprendere i fenomeni
di crescita urbana e immaginare il futuro.
”En la situación contemporánea, la arquitectura sigue estando en la ciudad. Forma parte de ella y materializa una parte de los espacios en los que se desarrolla la vida urbana. Sin embargo, hoy más que nunca, comprobamos que la ciudad es mucha más cosas que sus edificios y sus arquitecturas. (…) Pero estoy convencido de que estas nociones que han de aclarar los puntos de contacto entre algunas arquitecturas y la nueva realidad urbana tiene un referente arquitectónico, pero son también culturales, es decir, hacen necesario establecer una directa relación entre la forma de la arquitectura y lo urbano”.
Si invoca un ormai  ineludibile ritorno all’architettura, con le parole di Solà Morales5, ma anche il riconoscimento di nuove relazioni tra architettura e città, proprio a partire dalle nuove forme della stessa. Città del Messico, come tutte le città, è fatta di architetture mediocri, ma anche di buone architetture, è una realtà nella quale, proprio per le questioni dimensionali si inizia a ripensare alla residenza non solo in termini quantitativi, ma anche in termini di qualità del progetto; alle infrastrutture come servizi e come vero e proprio sistema di innervatura, sul quale provare a ri-strutturare la città restituendo un disegno urbano; agli spazi pubblici, che prescindendo dalla loro natura, in taluni casi anche residuale, come altro elemento strutturante e di riequilibrio delle “forze” urbane. L’architettura di Città del Messico c’è e va letta anche nel suo valore di posizione rispetto a dimensioni così vaste, confermando il policentrismo urbano, che è una caratteristica specifica della sua configurazione, dovuto, in buona parte, alla conformazione orografica. Nella collezione di tavole policrome, a gesso su cartoncino, conservate nell’archivio Barrágan e datate 1960, l’architetto messicano interpreta e descrive lo sviluppo di Città del Messico proprio a partire dalla sua condizione orografica di terra vulcanica; il territorio è disegnato dalla forza dei rilievi contrapposti alla grande piana, le cime più alte con in vista i crateri sembrano rappresentare i punti di riferimento, il verde un importante elemento del paesaggio.
In questi disegni, alcune tavole rappresentano lo stato attuale a partire dalla struttura della città di fondazione azteca, altre un possibile incontrollabile sviluppo ed altre ancora la visione del maestro di una auspicabile quanto irrevocabile espansione, ma in tutte la questione fisica, la geografia, il luogo come contesto appaiono elementi centrali per la decifrazione di quanto è stato e per una prefigurazione di quanto potrà essere. Proprio il rapporto con il contesto è uno degli elementi del progetto, così come le relazioni tra la struttura del territorio e la sua trasformazione,
a partire dalla grande Tenochtitlán; i diversi sistemi di relazioni costruiti dal progetto si inseriscono in sistemi di relazioni già esistenti dando nuove interpretazioni e riconoscendo la complessità del territorio stesso. Appare, dunque, di estremo interesse il lavoro sulla “cartografia prospectiva” di Alejandro Hernández Gálvez, indagine sulla “corografia” alla ricerca dei legami e delle relazioni tra Città del Messico e la sua orografia, la sua topografia, facendo un passo indietro alla ricerca di una struttura urbana, che nel tempo, pur non ampliandosi, ha confermato se stessa.
La ricerca di Gálvez conferma l’esigenza di studiare ancora questa città come uno spazio sempre più esteso quasi senza limiti, anche per individuare e configurare, all’interno del territorio urbanizzato, degli elementi definiti e controllabili, pezzi autonomi, ma connessi tra loro, indispensabili per pensare alla sua trasformazione. Ed è l’architettura lo strumento di controllo e conformazione dello spazio, è l’architettura che può e deve svolgere un doppio ruolo nella configurazione della città.
Negli ultimi anni si è costruito molto a Città del Messico, e si è costruita nel complesso un’architettura di buona qualità. C’è in città una generazione di giovani architetti, che opera anche nel resto del Paese, con grandi potenzialità, che ha i suoi riferimenti  all’esterno ma che riconosce le diverse generazioni di maestri messicani, e in taluni casi riesce a fondere la contemporaneità con le caratteristiche specifiche della cultura locale. D’altronde esiste una tradizione del costruire, che ben si fonde con il moderno, che ci restituisce oggi architetture in cui luce, acqua, natura, i colori della terra, sono materiali del costruire, al pari di ferro, vetro, cemento. E questo è anche il segno della forza di un contesto che è culturale, ma è anche fisico e percettivo, senza dubbio vivo.
L’ampliamento, quasi senza regole, di Città del Messico, ha portato ad un significativo incremento dell’architettura privata, molto spesso a fini speculativi; tanti architetti lavorano direttamente con le imprese costruttrici e tutto ciò ha modificato il volto di molte zone della città moderna, producendo talvolta un’architettura mediocre. Javier Barreiro ha titolato un suo scritto di alcuni anni fa “Arquitectura sin médula” e Alejandro Hernández Gálvez, nello stesso numero della rivista Arquine6, ha scritto un breve saggio dal titolo “Arquitectura prêt-à-porter”, restituendo una visone profondamente critica di un certo tipo di architettura urbana contemporanea a Città del Messico, ma anche di un mondo nel quale l’iniziativa privata,  spesso foriera di speculazione, è talvolta stimolo a costruire e, come dimostrano molti della più giovane generazione, ogni occasione diviene buona per ricercare e per sperimentare, per definire passo dopo passo una nuova identità. Particolarmente interessante è lo sviluppo di una nuova ricerca sulla residenza, attraverso temi e soluzioni formali, e di conseguenza sugli spazi collettivi, in taluni casi anche sullo spazio pubblico
e le nuove forme che questo può assumere nell’ambito di una città di tali dimensioni. È, dunque, importante non dimenticare come i termini del ragionamento siano sempre due: architettura e città, anche per Città del Messico, la metropoli forse più grande del mondo. Solo riconoscendo gli elementi che contribuiscono a fare la città, si può individuare la forma fisica e iniziare a tracciare una nuova identità urbana che faccia del suo policentrismo un punto di forza.

Marella Santangelo (1964), architetto, laureata nel 1988, PHD in Composizione Architettonica, borsista CNR presso la Escuela Tecnica Superior de Arquitectura de Barcelona, è stata docente a contratto della Scuola di Specializzazione in Progettazione Urbana dell’Università degli Studi di Napoli ”Federico II” e della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Dal 1991 svolge attività di ricerca sui temi dell’architettura e del progetto urbano presso il Dipartimento di Progettazione Urbana e di Urbanistica. Ha pubblicato e curato numerosi volumi e saggi, tra i più recenti Progetto e trasformazione della città, 2005; Architettura contemporanea in Brasile, 2006; La costruzione dei luoghi urbani, 2007; EMBT 1997/2007 10 anni di architetture Miralles Tagliabue, 2008.