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Riflessioni sull’arte dell’incompleto

L’architetto che aggiunge ad un edificio preesistente accetta che il proprio ruolo si inserisca in un continuum e che il proprio progetto non sia né l’inizio né la fine della storia. Citando Vincent Scully: “L’architettura è un dialogo continuo tra le generazioni, dà vita a un ambiente che perdura nel tempo”. A mio parere, le possibilità che scaturiscono dalla necessità di adattare un edificio esistente sono infinite: sollecitano i migliori architetti a fare del proprio meglio per poter far fronte alle difficoltà extra e a instaurare un dialogo che vada oltre il presente, che superi le idee ristrette legate al singolo momento. Nel libro “Old buildings – new forms: new directions in architectural transformations“ (The Monacelli Press, New York, 2013) scrivevo: “Negli ultimi vent’anni abbiamo ridefinito il nostro rapporto con il passato e con il mondo così com’è oggi. Lo si nota in ogni ambito, in politica, in agricoltura, in quello che mangiamo, ma il cambiamento è ancora più evidente nell’approccio verso i vecchi edifici, come dimostra il numero crescente di progetti atti a creare architetture nuove e interessanti riutilizzando quelle preesistenti. Che si tratti dell’annesso alla piccola abitazione di periferia a Newton Massachusetts o dell’ambizioso ampliamento dell’istituto d’arte di Toronto, l’intervento richiesto può variare nelle dimensioni e nell’approccio alla progettazione, ma rimane comunque un lavoro ambizioso e affascinante. Mentre l’edificio preesistente è l’elemento da cui nasce il progetto, l’architettura che ne scaturisce risulta decisamente attuale. L’elemento di novità, degno di nota, è che le strategie progettuali derivano da tutta una serie di idee sviluppate da artisti attivi intorno alla metà del ventesimo secolo; artisti che utilizzavano rottami o oggettistica varia per creare arte, o che elaboravano nuove strategie al fine di reinventare il proprio rapporto con quanto realizzato; utilizzando le parole di Sol LeWitt “L’idea diventa la macchina che crea arte”1.

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BBPR Castello Sforzesco, Milan, 1954-1963 - photo by Alberto Lagomaggiore.

In quanto architetti, dovremmo osservare questi edifici, mix di nuovo e vecchio, dovremmo imparare da essi e sviluppare un occhio critico. L’architettura di ampliamento e trasformazione dovrebbe essere compresa da un pubblico più vasto: le commissioni esaminatrici, i committenti e coloro che si occupano di tutela non si trovano a proprio agio di fronte a tale tipo di architettura e non avendo un contesto che possa aiutarli a farsi un’opinione propria, oscillano tra la totale approvazione e l’avversione più completa. Il testo Old Buildings – New Forms offre un contesto che può aiutare la comprensione in tal senso; trattasi infatti di una raccolta di opere che possono essere esaminate, messe a confronto e comprese, tutte ascrivibili all’architettura e alla cultura del tardo ventesimo secolo.
[...]
Gli attuali sviluppi possono essere meglio compresi alla luce del percorso intrapreso dall’architettura a partire dalla seconda metà del XX secolo, sebbene la profonda influenza esercitata da Marcel Duchamp sia da considerarsi cruciale, è infatti quello il periodo in cui il modernismo nella sua maturità si stava per avvicinare alla fine e artisti e architetti cercavano nuove direzioni. È negli anni sessanta che una serie di eventi gettano le basi per quella che sarà il nuovo atteggiamento nei confronti del mondo. Tra i suddetti eventi si annovera la pubblicazione di tre libri: Vita e morte delle grandi città – Saggio sulle metropoli americane di Jane Jacobs (1961), Primavera silenziosa di Rachel Carson (1962) e Complessità e contraddizioni nell’architettura di Robert Venturi (1966), la scomparsa dell’industria manifatturiera dai centri urbani, la nascita della Pop Art e il consolidamento del ruolo dell’artista quale critico sociale. Era già nell’aria l’idea di ripensare al nostro rapporto con la natura, con gli oggetti commerciali, con la città, con la spazzatura che ci circonda e soprattutto il nostro rapporto con il passato.

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Carlo Scarpa, Museo di Castelvecchio, 1958-1974. Photo by ORCH orsenigo_chemollo.

Quei tre libri, insieme, sono riusciti a mettere in discussione dottrine ben consolidate nel campo dell’urbanistica, delle scienze ambientali e dell’architettura; hanno dato vita a un intenso dibattito, hanno esercitato una forte influenza e rappresentato un importante punto di svolta in ambito culturale: hanno infatti reso di nuovo possibile imparare direttamente dal passato e dal mondo così com’è. Jacobs ha attaccato le moderne pratiche “razionaliste” di progettazione, sostenendo che queste stavano uccidendo la città “trasformandola in un ideale di ordine e raffinatezza così semplice da poter essere inciso sulla capocchia di uno spillo”2. Jacobs opponeva ridondanza e vivacità all’ordine e all’efficienza (rappresentate, nell’ambito delle pratiche urbanistiche comunemente accettate, dalla separazione, nella circolazione, nelle destinazioni d’uso, nelle tipologie architettoniche). L’autrice non vedeva nel disordine e nell’apparente caos della vita urbana qualcosa da dover correggere, quanto piuttosto qualcosa che funzionava, un’infrastruttura di successo, che andava sostenuta e su cui edificare, non certo qualcosa da smantellare e sostituire. A Carson viene comunemente riconosciuto il merito di aver dato inizio al movimento ambientalista, avendo portato alla luce gli effetti devastanti dei pesticidi sull’ambiente (e sugli esseri umani). Il suo libro Primavera Silenziosa e il dibattito che ne è scaturito rappresentano un’accusa verso una tendenza crescente al controllo tecnologico della natura, una tendenza fino ad allora incontrastata. Complessità e contraddizioni nell’architettura è stato per gli architetti un amichevole pugno allo stomaco, un manifesto “delicato”, il cui eco risuona ancor oggi. Invece di abbracciare il concetto, alla base dell’architettura moderna e mai messo in discussione, di coerenza, chiarezza schematica e approccio a-storico, Venturi si è schierato a favore della complessità architettonica, dei precedenti storici e dell’artificio, sostenendo che, benché considerati tabù per l’architettura ortodossa moderna, tali elementi erano in grado di generare ricchezza ed interesse, potevano dunque legittimamente essere applicati all’ambito progettuale.

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Vanna Venturi House, Chestnut Hill, Philadelphia, Pennsylvania, 1962, Venturi & Short; photo courtesy of the Library of Congress, Prints and Photographs Division.

Ha analizzato esempi di architettura rurale e altri più d’élite e ha tratto da tutti una lezione, sia che si trattasse di architetti come Michelangelo o Alvar Aalto o di designer finiti ormai nel dimenticatoio come Frank Furness e Edwin Lutyens. Ha portato avanti l’idea di un’architettura che incarnasse “l’unità difficile dell’inclusione piuttosto che l’unità facile dell’esclusione. Più non è meno”3. Molti architetti da me intervistati per questa pubblicazione, in particolare architetti europei, hanno sottolineato quanto il testo Complessità e contraddizioni nell’architettura fosse stato importante per loro. Il libro ha infatti permesso loro di avere una visione d’insieme della cultura architettonica, una cultura che comprende anche edifici antichi, architetture minori e tutto l’edificato che li circonda, il testo ha consentito loro di esplorare la storia e il mondo visibile da cui trarre ispirazione. Benché la conseguenza più immediata ed evidente di quanto sostenuto da Venturi e Jacobs sia stato un ritorno al passato, in chiave nostalgica, meglio noto con il nome di post-modernismo, l’evoluzione a livello intellettuale ed artistico degli anni sessanta ha influenzato profondamente l’atteggiamento della società nei confronti degli edifici antichi e anche il modo di intervenire degli architetti, che trasformano i suddetti edifici in modo che possano continuare a funzionare. In seguito a tale punto di svolta, gli architetti si sono trovati non più vincolati dalla ristretta dottrina modernista e dai limiti autoimposti e da essa derivanti, nuove forme hanno cominciato ad emergere. L’uso del termine forma è voluto, è utilizzato perfino in tono provocatorio per introdurre il concetto che la forma non è solamente una figura ben definita e immediatamente comprensibile per chi la osserva, ma può essere sfocata, apparentemente indefinita e non di facile comprensione. La Maison Dom-ino4, progettata da Le Corbusier nel 1914 quale scheletro strutturale, rappresenta una nuova forma ma lo stesso si può dire del loft come abitazione. Il nuovo non deve apparire tale per esser nuovo. Il libro di Venturi è stato scritto in un periodo di grande fermento in ambito artistico. Gran parte dell’arte degli anni sessanta si basava sul concetto di riutilizzo di materiale di scarto e sul quotidiano quale medium e soggetto stesso dell’arte, sia che si trattasse effettivamente di utilizzare la spazzatura, uno spazio abbandonato in un edificio vuoto in un quartiere deserto, o oggetti commerciali diffusi e anonimi. L’interesse per i materiali si è andato ampliando fino a comprendere forme d’arte in cui venivano utilizzati materiali morbidi, informi (si pensi all’opera di Eva Hesse o Claes Oldenberg), di tipo industriale o semplicemente terra (come nelle opere di Robert Smithson).

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Empty Nest, Newton, Massachusetts, 2002, Della Valle + Bernheimer architects; photo courtesy Della Valle + Bernheimer.

Il concetto di quello che può essere considerato “arte” ne è risultato allargato, è andato espandendosi il repertorio di ciò che è degno di essere osservato o elaborato; il confine tra ciò che è arte e cosa no è divenuto sempre più sfocato. Gli artisti hanno cominciato a esaminare ciò che li circondava, nel contesto urbano e post-industriale e ne hanno scoperto il valore. Negli anni cinquanta e sessanta, Robert Rauschenberg cominciava a creare assemblaggi dal titolo “Combines”, opere che univano tra loro media diversi e per la cui realizzazione Rauschenberg utilizzava gli oggetti recuperati più disparati. Cartelli stradali, letti, un fagiano imbalsamato, brandelli di vestiti, pezzi di giornale, una lampadina elettrica (la lista potrebbe continuare all’infinito) venivano utilizzati per creare collage tridimensionali, opere d’arte disordinate, non eroiche, enigmatiche. A partire da tale svolta culturale, avvenuta negli anni sessanta, gli architetti hanno cominciato ad affrontare diversamente quei progetti che prevedevano la presenza di vecchi edifici. Con il nuovo approccio adottato, il tradizionale do ut des della composizione o l’amore post moderno per le citazioni formali viene sostituito da giustapposizioni non nette, neutre, all’origine delle quali vi sono le idee e le pubblicazioni sull’arte del periodo. Tale cambiamento nell’approccio ci ha aperto gli occhi sulla realtà del mondo e sulle diverse possibilità offerte da progetti di trasformazione in cui vi siano edifici preesistenti da integrare. Gli architetti che hanno progettato gli edifici riportati in questo libro non rifiutano l’architettura moderna, stanno piuttosto elaborando un nuovo approccio da adottare di fronte alla relazione tra nuovo e antico. Una scelta che dimostra maturità, che non prevede un rifiuto totale ma che piuttosto implica un utilizzo artistico e funzionale saggio degli edifici esistenti, limitato o importante che sia, e l’integrazione di tale edifici quali generatori di forma.

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Il contesto architettonico post-bellico.

Il decennio che segue la fine della seconda guerra mondiale, fornisce un terreno fertile per l’architettura di ampliamento e trasformazione in Europa. Gli edifici sopravvissuti erano stati caricati di un profondo valore culturale ed emotivo, sia che si trattasse di architetture intere che di semplici frammenti di esse. Tali simboli dell’identità nazionale dovevano essere ristrutturati, ma rappresentavano altresì un’opportunità, per architetti e committenti, di ribadire il proprio impegno verso il presente e per esprimere le loro speranze per il futuro. Nel 1956, in Italia, lo studio BBPR (gli architetti Gianluigi Banfi, Ludovico Belgioso, Enrico Peressutti e Ernesto Rogers) presentò un progetto per il rinnovo e la ristrutturazione del Castello Sforzesco di Milano, una fortificazione del XIV/XV secolo, già ristrutturata nel XIX secolo ma gravemente danneggiata dai bombardamenti degli Alleati nel 1943. Secondo gli architetti: “il problema era riparare la struttura e fornire la possibilità di esporre al meglio il contenuto del Castello, con soluzioni che fossero artisticamente compatibili con il contesto ma che non si presentassero come una mera imitazione di questo”5. Gli architetti dello studio BBPR inserirono elementi moderni, come semplici pannelli da esposizione, un sistema luci in tutti gli ambienti antichi in grado di farli risaltare come tali. L’attenzione venne posta principalmente sulla necessità di chiarezza, e su un affiancamento empatico di vecchio e nuovo. Nello stesso anno, Carlo Scarpa iniziò a lavorare al progetto del Castelvecchio a Verona, un progetto che attirerà su di sé una certa attenzione nei decenni a seguire6. In entrambi i casi, la cosa importante fu che architetti modernisti utilizzassero la storia quale elemento progettuale e valorizzassero edifici antichi quali partecipanti attivi di nuove architetture”.

Note

1. [Sol LeWitt “Proposizioni sull’arte concettuale" Artforum, V (Giugno 1967), 80]
2. Vita e morte delle grandi città - Saggio sulle metropoli americane, Jane Jacobs, Viking, 1961, Introduzione P.9.
3. Complessità e contraddizioni in architettura, Robert Venturi, The Museum of Modern Art Papers on Architecture, pubblicato da Museum of Modern Art in Collaboration with the Graham Foundation for Advanced Studies in the Fine arts, Chicago, 1966, prima edizione; paragrafo “Architettura non diretta – Un manifesto delicato” pag. 23.
4. Progettata da Le Corbusier nel 1914, la Maison Dom-Ino (nome che gioca con il termine domus, corrispondente latino per “casa”) era una costruzione a due piani; la struttura, con pavimento e pilastri in calcestruzzo, si presentava indipendente dalla planimetria funzionale dell’abitazione e permetteva di utilizzare elementi non strutturali, quali porte, finestre e pannelli per la facciata, di scarsa qualità o recuperati da edifici danneggiati durante la guerra. Pubblicato in Le Corbusier et Pierre Jeanneret – Oeuvre Complete de 1910-1929
5. “Il Museo del Castello Sforzesco: una ristrutturazione storica delicata e un ambiente espositivo, brillantemente risolti dallo studio BBPR.” Interiors (dicembre 1956): 83-93. Nello stesso numero di Interiors venne pubblicato La galleria d’arte a Yale di Louis Kahn. Il confronto tra le fotografie degli interni delle gallerie (in particolare p. 80) dimostra l’influenza reciproca esercitata dai due settori.
6. “L’opera di Scarpa al Museo di Castelvecchio a Verona” Domus 369 (Aug 1960): 39-53; V. Cabianca (“Premio regionale conferito dall’Istituto Nazionale di Architettura nel 1964”), Architettura: cronache e storia 12 nº127 (maggio 1966): 25-62; P.C. Santini, “La ristrutturazione del Museo di Castelvecchio, Verona, Italia, 1958-64; l’architetto del restauro; Carlo Scarpa” Global Architecture 51 (1979) 30-40.

Françoise Astorg Bollack è un architetto con sede a New York City e Professore associato presso la Columbia University’s Graduate School of Architecture, Planning and Preservation. È autrice di Old Buildings – New Forms: New Directions in Architectural Transformations (The Monacelli Press, New York, 2013), vincitore nel 2014 dell’ambito premio Historic Preservation Book Prize, conferito dalla University of Mary Washington. “Il libro della Bollack rappresenta uno stimolo nell’ambito della conservazione dei beni culturali negli Stati Uniti e nel mondo”, sostiene Gary Stanton, presidente della giuria e professore associato per la conservazione dei beni culturali presso la UMW. Tra le pubblicazioni recenti ricordiamo l'articolo Defining Appropriateness pubblicato in Saving Place: 50 Years of New York City Landmarks (The Museum of The City of New York & The Monacelli Press, 2015).