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Forte di un governo cittadino solido e di una rete di investitori tanto facoltosi quanto armati di visionarie ambizioni, Oslo ha intrapreso nell’ultimo decennio un progetto di trasformazione del proprio territorio di portata pressoché unica nel contesto della vecchia Europa. Costruito principalmente intorno alla riconversione di vaste aree industriali in disuso, l’obiettivo di questo progetto è quello di ricucire frammenti di città per decenni negletti al tessuto urbano storico, attraverso un articolato sistema di nuovi programmi e spazi pubblici.
Una mappatura sistematica dei cantieri in corso ne rivelerebbe la presenza in distribuzione pressoché capillare su tutta la città, costruendo una topologia di zone in divenire di natura estremamente variegata sia nella scala che nella rapidità con cui i cambiamenti prendono sostanza.
Tuttavia è sulla linea che unisce la città all’oceano che la maggior parte delle energie, fisiche non meno che mediatiche, si sono concentrate. In linea con una tendenza comune a molte città europee, infatti, anche Oslo ha avviato da alcuni anni un processo di dislocazione delle infrastrutture marittime più centrali verso siti periferici, con l’intento di reclamare al territorio urbano grandi aree storicamente destinate ad attività portuali, ed aprire così la città al mare. Il progetto Oslo Fjordbyen include ad oggi un esteso territorio di 225 ettari che abbraccia l’oceano da ovest ad est, suddiviso in tredici aree di prossima trasformazione, ciascuna assegnata ad obiettivi, tempi ed attori specifici. Esiste tuttavia un centro attorno al quale questo futuro gravita. Si tratta di una penisola piuttosto vasta, che fino ad oggi costituiva una propaggine nascosta della città a est del centro, in un’area compresa tra la stazione ferroviaria e il fiordo. È qui che si concentravano le principali attività di interscambio delle merci, facilitate dalla locale convergenza di importanti linee infrastrutturali. Eppure, proprio le stesse infrastrutture avevano per decenni mantenuto questo settore urbano ineluttabilmente separato sia dalla città storica che dal mare. La decisione di ricollocare il porto industriale fuori dai confini cittadini e di rimuovere l’autostrada E18 dal litorale, deviandone il tragitto in nuovo tunnel sottomarino, hanno però restituito al territorio di Bjørvika un ruolo cruciale nel futuro sviluppo di Oslo. L’area di Bjørvika fa anche parte di quella metà est della città storicamente abitata dai ceti più popolari, in cui tutti i dati statistici cui si affida la misurazione del benessere registrano da sempre dati negativi. Era inevitabile che la trasformazione del litorale a ridosso di un tale contesto acquistasse il significato aggiuntivo di un’apertura del fiordo a tutti. Così, quando è stato aperto il dibattito, su dove il primo edificio della futura Fjorbyen dovesse sorgere, la scelta di dirottare la nuova Opera House da ovest verso est ha subito acquistato il valore di una promessa democratica largamente condivisa.
Indiscussa pietra miliare della trasformazione di Bjørvika, l’Opera House di Snøhetta è in qualche modo diventata, fin dalla sua inaugurazione nell’aprile 2008, anche l’icona cui tutto il progetto Fjordbyen fa riferimento. La grande, bianchissima superficie di marmo bianco di Carrara che ne costituisce la copertura sembra infatti riassumere in un’immensa topografia calpestabile l’essenza
del programma di Fjordbyen: l’idea di affidare a grandi programmi culturali e all’architettura che li contiene la produzione di una nuova urbanità e la caratterizzazione dei suoi spazi pubblici.
In linea con questo concetto, altri quattro grandi centri di cultura migreranno nei prossimi anni dalle loro sedi storiche nel cuore della città verso il mare. Esiti di altrettanti concorsi di progettazione, è su questi edifici che gran parte del dibattito sull’architettura ad Oslo si misura oggi. Si tratta del nuovo museo Astrup Fearnley disegnato da Renzo Piano, della nuova Nasjonalgalleriet che sorgerà sulle impronte ormai cancellate della vecchia stazione ferroviaria di Oslo ovest, della sede principale della biblioteca Deichmann, progetto di Lund Hagem Arkitekter e Atelier Oslo, e del nuovo Munchmuseet firmato da Juan Herreros. Le controversie intorno alle qualità tettoniche e spaziali di questi progetti sono innumerevoli, e molto spesso capziose. Eppure, ciò che sembra essere davvero in discussione, oggi come da decenni ormai sul fronte mare di Oslo, sono piuttosto le logiche e i fondamenti della sua trasformazione urbana. Il dibattito sulla riconversione del waterfront ha infatti origine negli anni ottanta, quando un’area di attività industriale in disuso e dalla collocazione invidiabile, venne trasformata nel mix di residenze di lusso, uffici, aree commerciali e soleggiato passeggio marittimo che è oggi internazionalmente conosciuto come Aker Brygge. L’immenso successo che la trasformazione di Aker Brygge ha riscosso fin dal suo completamento nel 1989, ha contribuito negli ultimi vent’anni alla canonizzazione nel contesto norvegese di un modo di progettare lo spazio urbano del quale il progetto Fjordbyen sembra davvero essere la naturale continuazione e, in qualche modo, un concettuale perfezionamento. Cardini di questo modello sono un’iniziativa pubblica forte in grado di definire e supportare la trasformazione integrale e sistematica di interi spezzoni di città, e il coinvolgimento di capitale privato come riferimento per la realizzazione di queste operazioni. Il risultato è un’accelerazione vertiginosa nei processi di trasformazione urbana, che arrivano a risolversi nell’arco di anche un solo anno, e l’accentramento della progettazione nell’iniziativa di uno o pochi grandi studi di architettura. L’area di Tjuvholmen, che di Aker Brygge è anche un’appendice topografica verso il mare, è forse la più recente, ma anche più letterale, traduzione di questo modello in massa costruita. In maniera non dissimile, la cartografia della nuova Bjørvika può essere letta come il prodotto di un’alleanza tra istituzioni pubbliche, impegnate nella definizione di precisi principi spaziali e strategici di pianificazione, e gruppi di investitori – in questo caso tutti altrettanto pubblici – disposti a scommettere sul successo di questi nuovi territori e animati dal desiderio di consolidare la propria presenza nelle aree più importanti del futuro panorama cittadino. Esiste però, nelle dinamiche in corso oggi, un concetto completamente nuovo: l’urbanismo è diventato a Oslo anche e soprattutto un problema architettonico.  È attorno a questo punto che molte delle critiche al progetto Fjordbyen si condensano. Ci si chiede, per esempio, quanto l’enfasi posta su concorsi, architettura e programma come opportunità per generare nuovo spazio urbano non dissimuli piuttosto, nel contesto di un progetto quasi totalmente guidato dall’iniziativa pubblica, i sintomi di una certa afasia nell’immaginazione urbanistica delle attuali istituzioni. Se da un lato, infatti, il progetto Fjorbyen si allinea ad una tradizione, solida nel contesto norvegese, di pensare lo sviluppo della città in relazione a strutture di paesaggio a scala territoriale, la discussione su quale urbanità e quali modalità dell’abitare proporre in relazione alle qualità uniche di un margine affacciato sul fiordo, sembra in qualche modo arrestata – oggi – nella retorica di un’iconografia inquadrata dall’oceano. Ma al di fuori del litorale, che cosa sta succedendo a Oslo? In un futuro non troppo prossimo, chi volesse allontanarsi dall’Opera in direzione est, incontrerebbe un nuovo paesaggio di ponti, passerelle e piccole terrazze sull’acqua, risultato di un progetto di suolo che riporterà in superficie l’estuario del fiume Akerselva, da decenni incanalato sotto le banchine portuali. Akerselva è una delle strutture di paesaggio più importanti nel territorio di Oslo, linea naturale che storicamente divideva la città borghese dai quartieri di abitazioni popolari e sulla quale le più importanti industrie della città si erano insediate sfruttando la presenza dell’acqua. Nel corso degli anni, fin dal dopoguerra, la municipalità di Oslo si era occupata di riacquistare i terreni a ridosso di Akerselva con l’obiettivo di creare aree di svago destinate ai lavoratori residenti nella zona.  A partire dal 1992, questo processo si è consolidato in un piano integrale di deindustrializzazione del fiume, e in un progetto di riconnessione dei residui di natura ai margini in un sistema vegetale continuo di spazi accessibili lungo le rive. Oggi Akerselva è un’infrastruttura verde che attraversa la città da nord fino al fiordo, insieme corridoio ecologico e spina dorsale di un sistema misto di programmi che combina industrie avanzate (media e IT), residenze, centri per la cultura ed istituzioni educative. Lungo Akerselva, ad esempio, si è insediata all’interno di una storica centrale elettrica una delle due principali Università Norvegesi di Architettura e Design – AHO. OCA – Office for Contemporary Art Norway e DogA – Centro per il Design e l’Architettura Norvegese che si affaccia sulla corrente del fiume solo poche centinaia di metri più a sud. Il confronto con Bjørvika è inevitabile. Passeggiare lungo Akerselva, oggi, ci offre l’esperienza di un pezzo di città che ha preso sul serio il potere generativo delle logiche di paesaggio, in cui la tendenza naturale a diventare infrastruttura e una nuova ecologia del fiume sono diventati i cardini su cui costruire, nel tempo, una nuova identità per un intero territorio. Si tratta sicuramente di un processo meno spettacolare di quello in corso sull’oceano, ma forse riflesso di uno sguardo più lungimirante sul futuro della città. È qui, tra la polarità di queste trasformazioni, che un itinerario sulla Oslo di domani può essere letto.

Alice Labadini lives and works in Oslo since 2008. She holds a degree in Architecture from Politecnico di Milano and is currently a PhD Research Fellow at AHO – Oslo School of Architecture and Design.

The photos accompanying the article are part of the “sett fra oven”, a study of Norwegian territory from the air born from a collaboration between the photographer Lasse Tur and the journalist Odd Helge Brugand. The images were taken during the spring 2010 from the point of view between 400 and 1300 meters high, on board a Cessna 172 piloted by Oddmar Stenhaug. The book “Oslo sett fra oven. En luftig ferd over hovedstaden“ collect a selection of 124 shots, short texts, historical and architectural report notes, or simply local stories. A book that is a unprecedented narrative of a journey through the capital, told by oblique perspective to the daily experience of the city.