area 105 | artificial landscape

Las Vegas sorge nel deserto del Mojave. Fino al 1855 appartiene al Messico; il nome di origine ispanica significa “I Prati” perché nella zona esistevano dei pozzi d’acqua che tenevano in vita alcune oasi verdi. In seguito all’annessione messicana da parte degli Stati Uniti viene costruito un forte - nella zona dell’odierna downtown - che funge da stazione di sosta per le carovane di pionieri diretti in California mentre all’inizio del Novecento diventa un importante snodo ferroviario per il trasporto delle materie prime nel resto del paese. La natura di terra-crocevia non è sufficiente a richiamare visitatori e rendere Las Vegas un importante polo agli occhi degli stati circostanti. La reale nascita della città risale solo al 1936 quando la costruzione dell’Hoover Dam è ultimata. Il nuovo complesso richiama visitatori da ogni parte degli Stati Uniti e la municipalità in breve tempo riesce ad assorbire l’investimento iniziale, decidendo di utilizzare il denaro guadagnato per fare di Las Vegas la capitale del turismo e del divertimento dell’intero paese.
In seguito all’Hoover Dam, nel 1946, il malavitoso Bugsy Siegel apre il Flamingo, il primo casinò, che si profila essere un’attività molto redditizia visto che il gioco d’azzardo all’interno della città è legale dal 1931. A questo primo complesso seguono altre mega strutture che comprendono all’interno albergo, casinò, ristoranti e tutte le funzioni necessarie allo svago degli ospiti. I diretti successori del Flamingo sono il Mirage (1952), il Sahara (1952), il Tropicana (1957), lo Stardust (1958), l’Aladdin (1966), il Circus Circus (1968), il Caesar Palace (1970) e il California (1975). L’idea principale alla base della pianificazione urbana di Las Vegas è quella di costruire una “città-lunapark” dove tutto è possibile. Ben presto il motto della metropoli diventa “What happens in Vegas stays in Vegas” , invitando così all’eccesso i visitatori.
L’architettura riflette questa tendenza e la città diventa un patchwork di rielaborazioni di edifici esistenti e atmosfere surreali. Questo trend prosegue senza sosta. Tra gli anni Ottanta e Novanta sorgono altri hotel e casinò a tema. Si passeggia per le strade di New York e Parigi attraversando Venezia o respirando l’affascinante atmosfera dell’antico Egitto dove una grande Piramide vetrata fa da sfondo ad una riproduzione della sfinge. Tutto questo si trova lungo un solo boulevard chiamato “Strip” che scorre per 6 Km. E’ chiaro che Las Vegas è la Strip, ogni attività è concentrata lungo quest’asse. Gli edifici di rilievo al di fuori sono pochi e slegati “dall’industria dell’entertainment”.
vegas 4
Si tratta di un tessuto a prevalenza residenziale, composto da costruzioni basse ed edifici ad uso pubblico come la Summerlin Library e CCSN West Charleston Campus – entrambi dei RAFI Architects – per concludersi con il complesso ancora in costruzione del Lou Ruvo Alzheimer’s Institute, progettato da uno degli architetti contemporanei che più di ogni altro ha fatto della sua filosofia architettonica un marchio di fabbrica, ovvero Frank O. Gehry.
L’edificio della celebre archi-star americana e il nuovo intervento del City Center – a cui hanno partecipato Daniel Libeskind, Foster+Partners, Pelli Clarke Pelli Architects e Rafael Vinoly – hanno dato il via ad un nuovo modo di pensare la città. La municipalità vuole tramutare l’immagine di Las Vegas, trasformandola da capitale del gioco d’azzardo a meta per le vacanze di famiglie e tempio dello shopping statunitense. Questo si riflette anche sulle scelte architettoniche. Al di là che il City Center è una delle più grandi operazioni immobiliare a capitale privato della storia degli Stati Uniti – esso rappresenta anche il tentativo di uscire dalla costruzione dell’edificio a tema di cui la Strip è oramai satura. In realtà quest’esperimento non è affatto riuscito ma si tratta solo di un cambio di soggetto. Si passa così dallo stile fantasy-fake degli edifici che simulano agglomerati urbani noti alla riproduzione in scala ridotta – ma neanche più di tanto – di una qualsiasi downtown di una metropoli americana in cui grattacieli in vetro illuminati 24 ore su 24 e shopping mall dominano lo skyline.
La “Vegas” turpe e mai spenta che fa da sfondo ad un malinconico e tormentato Nicolas Cage nella pellicola di Mike Figgis “Leaving Las Vegas” non verrà sostituita facilmente. È un’intuizione immediata che si ha appena scesi dall’aereo; che sia giorno o notte non fa differenza, la quantità di luci costantemente accese è tale che le percezioni si annebbiano. Non è possibile trasformare un luogo ludico, in cui tutti gli eccessi sono concessi, in un tempio per le famiglie borghesi americani, anche i tassisti appena sali in macchina invece di un usuale buon giorno gridano “Good Luck” e se chiedi cosa c’è da fare in città la risposta è “Gambling…what else?” Uno slogan perfetto perché  Las Vegas è davvero il Luna Park d’America basta non voler snaturare un gioco così ben riuscito.