area 111 | zero volume

Manuel Gausa
Nello spazio pubblico si è passati da una concezione di tipo tradizionale monumentale, rappresentativa e simbolica ad una concezione più attiva, operativa. Dal vecchio spazio pubblico siamo giunti ad uno spazio relazionale, autenticamente collettivo, disponibile all’uso, al godimento, allo stimolo, alla sorpresa, all’attività, basato sull’indeterminatezza del dinamico e sull’intercambiabilità di scenari effimeri attivati da coloro che vivono questi spazi. Il nuovo spazio pubblico non è quindi più uno spazio di “arredo urbano” basato sulla sottile evocazione figurativa degli antichi paradigmi storici (la piazza italiana – o mediterranea – la rambla, il boulevard, il giardino etc.), modelli caratterizzati da un’aspirazione estetica verso uno spazio civico tra il domestico e il neo-micro-monumentale, fisso e stabile, minuziosamente finito e disegnato “compositivamente”. Quello attuale non è più uno spazio compiutamente ricreato e in sé finito (basato su estetiche puriste e/o autistiche e teso al godimento di ribelli-vandali occasionali), ma uno spazio fatto di paesaggi nuovi – o paesaggi di paesaggi – che affidano l’idea di collettivo ad approcci più aperti, sensibili al cambiamento e all’interazione, approcci generatori di energia e di attività, basati non su disegni formali ma su relazioni informali, non più basati sul modello civico ma su situazioni ibride. Non più quindi uno spazio organizzato come un salotto di casa, ma un paesaggio attivo – multi-programmatico – in cui la manipolazione del suolo si combina con una manifestazione plastica, diretta, espressiva, mutevole, aperta alla presenza di installazioni (permanenti o effimere) per il tempo libero, per lo sport, per l’evento culturale, la gastronomia, il consumo, l’uso temporaneo e l’associazionismo, in sintesi la proiezione fisica dei bisogni del cittadino. Ma lo spazio pubblico contemporaneo si caratterizza anche per una nuova concezione degli usi pensata – e sviluppata – “in negativo” o in “pieghe” virtuali del suolo: in definitiva nuove “topografie dense” di attività. Si tratterà, in ogni caso, di nuovi ambienti sensibili all’incorporazione di costruzioni di appoggio, di vegetazione naturale e artificiale, di soluzioni più casuali, espressive – ed economiche –, concepite a partire da materiali “di riciclaggio”, colorati ed alternativi, ma anche dalla captazione di energia e dalla sua reintegrazione locale sotto forma d’illuminazione, elettricità, irrigazione, etc. Uno spazio relazionale che sia più che pubblico, un luogo “rigenerante” e ludico, più che rappresentativo uno spazio concepito sia per passeggiare e contemplare, ma anche disponibile ad usi e godimenti differenziati, ovvero uno spazio in cui operare un autentico scambio sociale. Fondamentalmente uno spazio stimolante più che “elegante”. A suo tempo abbiamo coniato l’espressione lands in lands: “paesaggi operativi” su “paesaggi anfitrioni”.
La definizione permette di riflettere sul superamento delle vecchie concezioni che hanno caratterizzato le azioni sul paesaggio basate sulla tradizionale gerarchia “figura-sfondo” – “figura edilizia su campo di fondo” – e sulla loro sostituzione con nuove interpretazioni più aperte, in cui sia possibile una fusione dei contorni, una dissoluzione della linea di confine (come nei campi di pixel della rappresentazione digitale in cui, attraverso uno zoom progressivo, le silhouette finiscono per diluirsi in trame più astratte, reciprocamente connesse). Su scala architettonica questo incrocio potrebbe essere egualmente concepito a partire da possibili operazioni di incontro e da “innesti” operativi, non solamente programmatici ma allo stesso tempo anche “categoriali”, in grado cioè di trasformare le condizioni precedenti del luogo in nuovi movimenti di rilievo, “natufici” (natura-artifici) virtuali di una configurazione ibrida. Non si tratterebbe di fatto di “diluirsi” nella (o di fronte alla) natura ma di interagire con essa favorendo anche “altri” tipi di natura(e), topografiche e topologiche. La forza del termine “paesaggio” ed il suo inserimento travolgente nel nostro recente bagaglio concettuale si radica, precisamente, nella sua manifestazione non tanto come mero scenario quanto piuttosto come strumento di azione capace di favorire il delinearsi di nuovi sistemi aperti allo stesso tempo strutturanti. Questa trasposizione dello sfondo del quadro dentro la sostanza stessa dell’azione risulta difficile da circoscrivere nel contesto concreto di un’attività specifica o complementare con vaghe connotazioni ambientali – come accade nel “paesaggismo” – in quanto deve coinvolgere le autentiche dimensioni progettuali. Il respiro del lavoro contemporaneo sull’idea di paesaggio va individuato precisamente nella sua capacità di cogliere nuove dimensioni, di superare i limiti, di sfumare le silhouette e di tracciare in modo nuovo i profili di ciò che prima si indicava come urbanismo e (o) architettura. Come abbiamo già segnalato, tale dinamica non è estranea all’idea di considerare il vuoto come “materiale architettonico” di prim’ordine, non tanto per il suo eventuale valore “naturale”, bensì per la sua fondamentale componente astratta, diffusa, che va oltre il predominio della forma (come già detto, questa qualità ambigua dello spazio “vacante”, “in negativo”, prende forma più attraverso le “assenze” che attraverso le “presenze”). Un’”architettura del vuoto” può, dunque, affermarsi in risonanza con le qualità di un “paesaggio-spazio libero” strumentalizzato precisamente per mezzo delle sue peculiari manifestazioni spaziali come “campo” di forze aperto.
Un’architettura fatta di “presenze-assenze” in grado di fondarsi sulla combinazione – paradossale – tra addensamento e sparizione, nella quale si manifestano con forza le superfici, gli orizzonti, gli incontri tra cielo e terra. Proprio come la città ha dissolto i confini che la separavano dagli antichi territori fuori dalle mura, così il progetto architettonico potrebbe sfumare i suoi contorni in nuove “geografie ibride della transizione”. Topografie che più che volumetrie dovrebbero conformare dei paesaggi artificiali su paesaggi anfitrioni in cui superfici grezze e operative si inneschino su superfici libere e ricettive dando luogo a nuove superfici dense su possibili superfici estese.
Il lavoro sulla superficie verrà inteso, quindi, come un lavoro su un vuoto “architettonizzato”, un “vide façonné”, in cui il progetto non si effettua a partire dalla configurazione della massa costruita in altezza – l’architettura come “edificazione” – ma muovendo dal ripensamento delle sue dimensioni orizzontali: picchi, dune, trincee, solchi, pieghe etc. che verranno intesi come manifestazioni topomorfiche di una possibile geografia artificiale non molto lontana – dal punto di vista della sua immagine spaziale – da quella naturale. Così rilievi e spazi piani, pieghe e cesure “si imprimerebbero” in modo nuovo sul terreno dando luogo a paesaggi minerari in cui i movimenti e i flussi andrebbero ad articolarsi “sotto il piano” e “dentro il piano”, in superfici cesellate (quasi) raso terra. Non si tratta quindi di continuare a creare bei “volumi di luce” ma “paesaggi ibridi di cielo”. Enclave ibride in grado di generare da sé la propria energia.
Campi dentro altri campi.
Lands in lands.
Abbiamo chiamato “topografie operative” (Quaderns 220) quei dispositivi concepiti come, e a partire da, movimenti strategici di pieghe nel territorio. Questi movimenti definiscono piattaforme e (o) enclave di natura quasi geografica sviluppate come “revesas programmatiche” (utilizzando il termine revesas nella sua duplice accezione di “corrente o movimento di flusso e riflusso derivato da una fonte principale” e di “astuzia nell’agire”). Si tratta di “rilievi” o “piani” funzionali che intensificano il loro status di “paesaggi operativi” come superfici rese lisce o estese (suoli dinamici)
o come superfici estruse (rilievi localizzati). In entrambi i casi si tratta di “paesaggi” virtuali manipolati che rimandano ad una definizione di “paesaggio” come “sfondo”o come “scenario”, ma anche come “costruzione”: in tutti e due i casi “paesaggi dentro altri paesaggi”. Le “superfici” rispondono ad una volontà di “sovrapposizione multistrato” e lì possiamo ritrovare molta dell’architettura fondamentale nel passaggio al nuovo secolo: i lavori di Actar Arquiterctura di Graz Maribor (2000) e Bruxelles Change (2003) o il famoso memoriale di Chi chi (2005), il noto memoriale di Oscar Peterson (Soweto) de François Roche (1997) o il Terminal de Yokohama di FOA (1996-2003) e i lavori precedenti di OMA ma anche lo studio multimediale di Kazuyo Sejima a Gizo (1996) rappresentano alcune delle prime intuizioni grafiche di questo potenziale. I “rilievi” rispondono ad una volontà di “risalto” localizzato e, in questo senso, è opportuno riferirsi tanto al famoso progetto per l’auditorium di Pamplona di Eduardo Arroyo (1998) quanto alle “montagne” di Vicente Guallart per Denia (2003) o di MVRDV a Stoccolma (2000), entrambi debitori verso progetti come quello di OMA ad Agadir (1990) o quello di Jussieu (1992)…Che si tratti di superfici piane estruse – rilevi e enclave – o cesellate – suoli e piattaforme – queste topografie andranno a formare “geografie” sopra il terreno. Geografie costruite più che architetture.
Intervista del 16 giugno 2010.

Wes Jones
Per confutare l’ipotesi che possa esistere una architettura a zero cubatura è necessario presumere che l’architettura possa prescindere da ciò che è propriamente spaziale, ossia dagli edifici.
Oggi siamo in grado di cogliere questa possibilità per due ragioni: in primo luogo perché la tecnologia ha annullato i limiti stessi che l’architettura tradizionalmente si è data nel tempo. In secondo luogo perché è diventata adulta una generazione di architetti che si è formata con l’idea di porsi fuori dalla disciplina. Considerare quindi l’architettura da una prospettiva a zero cubatura potrebbe quindi essere un primo passo nel rendere prioritaria la sopravvivenza dell’architettura, specialmente in un futuro in cui i concetti tradizionali e fondativi della stessa vengono a mancare o risultano confusi…Si potrebbe proporre il termine “architettonico” (invece di architettura) per riferirsi ad una condizione più generale di “architettonicità”, una interpretazione non più legata ai singoli prodotti specifici, ma capace di lasciarsi ispirare da una varietà più vasta di oggetti-stimolo. Quindi niente più casi specifici di architettura, che inevitabilmente sono edifici, ma un più ampio ed esportabile senso dell’architettonico, capace di essere applicato e di spiegare un ventaglio più ampio di esperienze.
Da ”L‘architettura a zero cubatura e l‘emergere dell‘architettura” in Aldo Aymonino, Valerio Paolo Mosco ”Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero”, Skira 2006.

Ilhyun Kim
Gli oggetti architettonici dello spazio pubblico, le architetture a zero cubatura, soggiacciono alle stesse regole ontologiche della scultura futurista e minimale. La ragione di questi oggetti viaggia sostanzialmente su due canali: da un lato la permanenza, dall’altro la maschera, il suo aspetto per “l’occasione”. Il più delle volte la maschera prevale sulle ragioni più intime e le ragioni dell’oggetto si esprimono come segni e codici di un istante, come pura comunicazione. Su questi principi hanno lavorato artisti come Christo, Matta Clark e Whiterhead, su come il coinvolgimento dell’osservatore potesse acquistare dimensione architettonica, acquistando così altri significati maggiormente legati al concetto di spazio pubblico. Il concetto stesso di architettura a zero cubatura non solo propone una categoria critica riguardante le attuali e molteplici valenze degli oggetti e degli interventi architettonici contemporanei, ma tenta addirittura di rintracciare fonti epistemologiche alternative alle teorie ed alla storia dell’architettura… L’oggetto ha importanza se l’architettura abbraccia per intero l’atmosfera in cui si svolgono le attività umane.
Da ”Realtà e architettura: Totalità e dissoluzione dell’oggetto” in Aldo Aymonino, Valerio Paolo Mosco ”Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero”, Skira 2006.

Kengo Kuma
Voglio “cancellare” l’architettura, questo è ciò che pensavo e che penso tutt’ora. L’architettura deve essere nascosta. Dovremmo inaugurare un’epoca in cui l’architettura si liberi del volume cubico.
I tempi cambiano rapidamente e l’architettura deve adeguarsi a tale cambiamento. Per come la vedo io, lo spazio pubblico (o architettura) è un luogo che deve favorire la comunicazione tra le persone. Ecco, l’architettura sta veramente cambiando. Vicino al mio studio a Tokyo c’è un cimitero, l’Aoyama Bochi, conosciuto per i ciliegi in fiore che lo circondano. In primavera, la gente si riunisce per festeggiare la fioritura, si diverte bevendo e mangiando sotto gli alberi. Questi ciliegi rappresentano esattamente ciò che intendo per “spazio senza architettura” ed è ciò a cui io stesso aspiro.
Intervista del 10 giugno 2010.

Luca Molinari
Lo spazio pubblico oggi sta acquisendo una nuova dimensione strategica fondamentale per il futuro della metropoli. La metamorfosi profonda del corpo sociale porta con sé nuovi desideri, modi ed usi dello spazio collettivo che si fa portatore di una domanda di nuove spazialità e visioni. In una dimensione di compresenza di diversità sociali, razziali, culturali e religiose, ripensare lo spazio pubblico oggi vuole dire confrontarsi con un’idea di luogo collettivo come mediatore di conflittualità potenziali e, insieme, come luogo del vivere comunitario. In una condizione di crisi strutturale profonda vissuta dalla società occidentale e nell’ottica di una revisione profonda del welfare metropolitano, il progetto dello spazio pubblico diventerà sempre più decisivo e strategico. Tutte le forme di progettazione dello spazio pubblico che giochino consapevolmente con l’assenza di consumo territoriale e di nuove risorse rappresentano una scelta politica e culturale necessaria, oltre che rilevante economicamente. In questi casi il progetto dello spazio collettivo a “zero cubatura” diventa anche uno strumento “didattico” di sensibilizzazione sociale e di costruzione di una consapevolezza vitale per la vita delle nostre metropoli. Penso a tutte le piazze nell’Italia del centro-sud, lungo la dorsale appenninica che usano come “quarto lato” la vista sul paesaggio aperto; ricordo il giardino pensile nel Palazzo Ducale di Urbino disegnato dal Laurana con la complicità di Francesco di Giorgio e all’uso evocativo che, dopo cinque secoli, ne ha fatto Giancarlo De Carlo nei suoi Collegi Universitari e nelle sedi cittadine. Mi hanno molto colpito il progetto di centralina di co-generazione disegnato da Modus nella periferia di Bressanone dove il tetto è diventato centro della comunità skater, così come il tetto-campo da basket per il bar universitario di NL architects a Utrecht. Il vuoto centripeto di San Pietro in Montorio a Roma di Bramante, ma anche il vuoto periurbano arcaico e sacrale del cimitero di Igualada disegnato da Enric Miralles. Ma il vuoto è sempre stata materia consapevole dell’architettura, a questa arte antichissima dobbiamo necessariamente integrare la necessità di non consumare più territorio e, insieme, di usare in maniera consapevole e sperimentale le poche risorse che ancora abbiamo.
Intervista del 14 giugno 2010.

Juan Purcell
Cooperativa Amereida nasce come gruppo pubblico ed abbiamo il pubblico come destino. Il destino di essere latini, che non significa potere al pubblico, ma pubblico come condizione umana ineliminabile. Fedeli a questa concezione negli anni settanta abbiamo avviato il progetto della Ciudad Abierta con la costruzione delle agorà, spazi a cielo aperto dove la parola fluisce e decide sugli affari pubblici della città. In seguito abbiamo realizzato le foresterie, la sala musica, la cappella, il cimitero. Tutte queste opere sono nate come esperienza poetica. Questa esperienza ci ha fatto capire che la relazione con il terreno deve essere leggera…l’ubicazione delle opere viene decisa di volta in volta da un atto poetico che comporta innanzitutto la comprensione del destino dell’opera in rapporto con la sua ubicazione naturale, scoprendo e proclamando la positività della leggerezza. Le opere della Ciudad Abierta danno vita ad uno spazio interno vissuto all’aria aperta, in un ambiente naturale in cui l’architettura acquista la dimensione della leggerezza e della disponibilità; tutto ciò attraverso una esperienza architettonica vissuta. Un tipo di esperienza che coniuga la leggerezza propria della poesia, di ciò che viene da dentro, con la disponibilità della natura che invece viene dall’esterno. Questa è la nostra interpretazione dell’architettura a zero cubatura nella Ciudad Abierta.
Da ”L’architettura a zero cubatura nella Città Aperta” in Aldo Aymonino, Valerio Paolo Mosco ”Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero”, Skira 2006.

Denise Scott Brown
Negli anni cinquanta lo storico dell’architettura Reyner Banham ipotizzava che gli spazi abitati dei primitivi potessero essere “non volumetrici” e paragonava tutto ciò agli attuali interventi di trasformazione dell’ambiente mediante i sistemi meccanici di controllo dell’ambiente. All’estremo opposto troviamo la caverna e tra la caverna e l’architettura non volumetrica le strutture leggere, le capanne alla Laugier… alcune categorie della zero cubatura (tettoie, strutture tecnologiche e microstrutture) sembrano fare riferimento concettuale ai rami intrecciati e alle pelli di tamponatura della capanna primitiva. Allo stesso tempo rimandano al fascino che i primi architetti moderni hanno provato per il costruttivismo e più in generale per la trasparenza e la leggerezza ed anche nei confronti degli esperimenti realizzati negli anni cinquanta con strutture ad intelaiatura leggera e con solette sottili degli ingegneri dell’epoca. Nonostante il nostro scetticismo nei riguardi delle strutture leggere, il concetto di architettura a zero cubatura ha assunto importanza ai nostri occhi in occasione dei nostri studi sulla Las Vegas degli anni sessanta. La struttura urbana di allora, così differente dalla Las Vegas di oggi, non era dominata dagli edifici, ma dalle insegne. In genere gli edifici costruiti nel deserto hanno il problema di sembrare piccoli rispetto alla vastità che li circonda. Il tempio di Karnak prospettava una soluzione che consisteva nel proiettare delle linee attraverso l’immensità del deserto date dalle file dei leoni accovacciati che servivano a graduare l’avvicinamento e dirigevano lo sguardo verso il tempio relativamente piccolo di Khons. Negli anni sessanta Las Vegas seguiva quel modello. Le dimensioni del deserto del Mojave e del deserto di auto parcheggiate sullo Strip avrebbero ingoiato anche i casinò più grandi. I muri non bastavano più a segnare i confini della strada. Come a Karnak lo spazio andava modulato da prospettive proiettate attraverso di esso. I “punti” che segnavano queste prospettive erano insegne di piccole e grandi dimensioni. Nello Strip di Las Vegas degli anni sessanta le insegne erano molto più evidenti degli edifici stessi. Erano la cosa che si vedeva prima. Le scritte poste più in alto guidavano i visitatori verso gli edifici, mentre le scritte poste più in basso davano informazioni sugli eventi che si svolgevano all’interno. Avvicinandosi a Las Vegas si capiva, come in qualunque città, che la densità aumentava con il procedere verso il centro. Ma qui la percezione non era riconducibile all’infittirsi degli edifici e alle loro maggiori dimensioni, bensì all’infittirsi del ritmo della comunicazione.
Era una modalità di definizione non volumetrica, molto distante da quella della città tradizionale. Progettati con la stessa cura riservata alle apparecchiature scientifiche, le gigantesche insegne al neon erano visibili dal cielo. Esse ci hanno ispirato il nostro slogan: “simbolo nello spazio prima che forma nello spazio”. Marcando e coprendo di insegne gli edifici questi oggetti avevano la capacità di definire l’identità pubblica, formale e simbolica dello Strip e in larga misura della città. Nel nostro studio Learning from Las Vegas abbiamo analizzato in che modo l’urbanistica a zero cubatura delle insegne dovesse essere documentata, visto che né i piani di uso del territorio, né le proiezioni ortografiche riuscivanoa testimoniare la loro reale importanza.…ampliando gli scopi dell’architettura e di conseguenza le sue categorie concettuali e partendo dalla considerazione che oggi il nostro campo di indagine è di più della semplice configurazione degli spazi, ma anche di meno, l’idea di architettura non-volumetrica può portare nuove dimensioni e maggior ricchezza a ciò che facciamo.
Da ”Presentazione” in Aldo Aymonino, Valerio Paolo Mosco ”Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero”, Skira 2006.

Vittorio Sermonti
Penso allo spazio pubblico più che attraverso dei concetti attraverso delle immagini mentali. Mi viene in mente un aforisma di Hugo von Hofmannsthal: “la profondità va cercata in superficie”, adeguato per capire la fenomenologia degli spazi pubblici contemporanei e della architettura a zero cubatura intesa come susseguirsi di innumerevoli trame orizzontali. Mi viene in mente anche Borges quando sognava una mappatura grande quanto il mondo: un’immagine mentale che implica un’idea del mondo reso del tutto disponibile. Una concezione prefigurata da Dante, nel ventisettesimo canto dell’Inferno, quello di Guido da Montefeltro, in cui la descrizione della Romagna si affida ad un simbolismo cartografico concreto, fisico che si eleva a narrazione poetica.
Lo spazio pubblico è quindi un racconto, la cui natura è imprescindibile dalla narrazione dello stesso. Alcuni hanno interpretato la Divina Commedia come un edificio, o meglio come una cattedrale, una costruzione prescrittiva (un volume) perfettamente riconducibile a leggi di proporzione e simmetria. Per quel che mi riguarda interpreto la Divina Commedia in maniera diversa: non volumetrica, come racconto fluido, in continuo scorrimento; un racconto che ha il carattere della vita e non della necropoli, in cui è evidente il primato del simbolo sul reale. Anche Baudelaire ha visto Parigi, la sua realtà fisica ed i suoi spazi pubblici, nella loro accezione simbolica, come racconto, come susseguirsi articolato di trame orizzontali e di associazioni mentali correlate ad esse. La città racconto di Baudelaire è ben diversa da quella ad esempio di Victor Hugo: non è più di pietra, non è più volume o spazi rappresentativi. È già la città degli odierni spazi pubblici. Vedo gli odierni spazi pubblici come un racconto dal basso che appare casuale, imprevedibile nelle sue espressioni ma che in realtà sottende alle leggi del consumo. Il risultato è quello che potrei definire un “decoro aleatorio”, effimero, vitale, ma alle volte rumoroso, caotico, sgraziato ed indecoroso. Nei casi peggiori mi viene in mente l’immagine dei Turchi accampati alle porte di Vienna.
Intervista del 17 giugno 2010.

James Wines
Ho scritto molto a proposito degli spazi pubblici fin dagli anni Settanta. I miei libri (De-architecture pubblicato nel 1986 e Green Architecture nel 2000) fanno spesso riferimento al tema del “non visto” (o dell’invisibile) negli ambienti di pubblico accesso. In qualità di scrittore e progettista, attingo continuamente a questo bagaglio concettuale poiché le soluzioni che ne scaturiscono sanno coinvolgere i partecipanti a un livello sociale e psicologico spesso sconosciuto al mondo della progettazione formalista convenzionale. Non di rado, infatti, le tradizioni di stampo modernista e costruttivista hanno dato vita ad alcuni degli spazi pubblici più aggressivamente invadenti, ottusamente fisici, ecologicamente irresponsabili e sociologicamente oppressivi che si siano mai visti.
Avendo già trattato questo tema in modo approfondito nel corso degli anni, ho cercato affrontarlo includendo altresì citazioni da altri testi in cui mi sono occupato del “volume zero” da punti di vista differenti. Duchamp definiva la sua opera più importante “non retinica”, anche se ovviamente l’occhio umano era in grado di percepire visivamente gli oggetti della sua arte. Quello che gli premeva sottolineare era il fatto che le idee autenticamente concettuali influiscono sull’atteggiamento dello spettatore nei confronti di un determinato oggetto (inclusi gli spazi pubblici) in base alla risposta sociale, psicologica ed estetica che questo genera nello spettatore. In alter parole, l’esistenza materiale di volumi chiusi e/o spazi aperti non è di per sé significativa in quanto emanazione della loro fisicità identificabile, lo è piuttosto in funzione dei pensieri che tali forme suscitano. A mio modo di vedere, la nozione di “architettura senza spazi” dovrebbe vertere maggiormente sulla capacità che gli elementi estetici presenti in uno spazio pubblico hanno di interagire con le associazioni subliminali che i fruitori stabiliscono con il loro ambiente. Come nel caso di Duchamp, l’obiettivo è modificare la percezione che abbiamo di qualcosa, non confermare quanto già sappiamo. Per dirla con le parole dell’architetto austriaco Frederick Kiesler: “Nessun oggetto della natura o dell’arte esiste al di fuori del suo contesto. Può anzi espandersi al punto da diventare esso stesso il suo contesto”. Da un punto di vista strettamente ambientale e pratico, l’architettura sotterranea presenta indubbiamente alcuni vantaggi, poiché è più facile riscaldare e raffrescare gli spazi, l’impatto sul panorama cittadino è meno aggressivo e le strutture risultano più ecologicamente responsabili. Questo tipo di architettura permette inoltre di realizzare tetti verdi e dedicare spazi maggiori ad attività ricreative da svolgersi all’aperto. In una prospettiva ecologista, oltre ai meriti di uno stile di vita ispirato agli albori dell’umanità, le costruzioni di questo genere consentono la pratica diffusa dell’agricoltura urbana, che si rivelerà essenziale per la sopravvivenza futura nelle città. Il riscaldamento globale e l’inquinamento atmosferico costituiscono infatti una minaccia crescente per la salute umana e le coltivazioni cittadine contribuiranno a limitare il trasporto su lunghe distanze di generi alimentari e beni di consumo durevoli che possono essere prodotti a livello locale. Il Central Park di Olmsted a New York, i giardini di Tivoli in Italia, il Campidoglio di Michelangelo a Roma, le opere a cui devo qualcosa sono molte, talvolta per l’impatto che generano su chi le guarda o per la loro valenza ecologica oppure in virtù di una pura e semplice idiosincrasia non voluta. Alcune insidiose domande sulle radici dell’immaginario che alimenta l’architettura contemporanea richiedono una risposta. Ad esempio, perché i meccanismi più sofisticati che caratterizzano l’era della cibernetica e degli studi sull’ambiente (in particolare, la progettazione computerizzata e la maggiore conoscenza dei fenomeni ecologici) vengono utilizzati principalmente per delineare edifici che sono stilisticamente radicati nella prima era delle macchine? Perché, invece, la comunicazione elettronica e i processi naturali non vengono utilizzati come fonti d’ispirazione per un nuovo linguaggio visivo? Parte della risposta è da ricercarsi nel fatto che gli architetti del costruttivismo russo non avevano a disposizione, negli anni Venti, l’arsenale di software su cui noi possiamo contare per sviluppare le loro complesse innovazioni formali. Gli architetti di oggi, inclini a un approccio stilistico saprofago, si sentono obbligati a terminare il lavoro. Eppure, far resuscitare idee degli anni Venti solo perché oggi sono realizzabili appare piuttosto una regressione. E infine, perché solo pochi architetti hanno colto l’ovvio collegamento estetico e concettuale fra i sistemi integrati di Internet e le loro controparti ecologiche in natura? Queste domande evidenziano la necessità di un approccio visionario ed “eco-digitale” all’arte delle costruzioni. Integrando idee provenienti dal mondo informatico e da quello ecologico, è possibile pervenire a nuovi concept progettuali che riecheggiano le trasformazioni mutevoli e lo spirito evolutivo della natura insieme al flusso di dati interattivo che scorre nei mezzi di comunicazione. In sostanza, si tratterebbe del tentativo di catturare l’intangibilità del vento che attraversa le fronde degli alberi piuttosto che di esprimere la meccanica ingombrante delle tecnologie edilizie. È la ricerca di un’architettura invisibile o virtuale che si oppone alla celebrazione del peso e della densità dei materiali industriali.
Da Mundaneum Conference Papers, San José, Costa Rica, 2009.

Per architettura invisibile s’intende un rapporto simbiotico tra edifici, sistemi di comunicazione, psicologia situazionale e tutela dell’ambiente naturale. Il termine suggerisce altresì che attingere idee dal contesto circostante sia un obiettivo di gran lunga più progressista per gli architetti contemporanei rispetto all‘enfasi tradizionale sulla ‘filosofia degli oggetti‘. Questo approccio alternativo dà molto meno risalto alla forma scultorea, ai materiali esotici e alle tecnologie di costruzione involute. Oggi le filosofie di progettazione ispirate alla Terra, che una volta ricoprivano un ruolo marginale o irrilevante, stanno rapidamente diventando terreno fertile per la nascita di una nuova avanguardia concettuale, mentre si attenua l‘interesse per la celebrazione convenzionale della massa fisica in architettura.
Da “Architettura a zero cubatura“ in Aldo Aymonino, Valerio Paolo Mosco ”Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero”, Skira 2008.

Nel nuovo millennio, l’architettura ha una missione primaria: evolversi da uno spirito ego-centrico ad uno eco-centrico. Questa evoluzione si riferisce a uno stato mentale di transfert in cui le nozioni abituali di una psiche isolata (priva di consapevolezza ecologica) vengono scambiate per risvegliare un senso esteso di comunione con la natura.
Da “Green Architecture“, Taschen Verlag, 2000.

La de-architettura (de-architecture) è un modo per dissezionare, scuotere, dissolvere, sovvertire e trasformare alcuni pregiudizi ormai cristallizzati relativi all‘edilizia, nell‘intento di scoprire qualche rivelazione tra le macerie.
Da “De-architecture“ Rizzoli International, 1987.

L’immaginario che una costruzione suscita come estensione delle sue funzioni o relazioni formali non è mai interessante quanto le idee che può apprendere dall’esterno. Un edificio deve essere come una spugna ambientale, che assorbe dal suo contesto i frammenti informativi più interessanti a livello sociale e psicologico. In questo senso, ogni struttura può essere vista come una “zona di filtraggio”, il nucleo di un processo di assimilazione, che può trasformare radicalmente l’architettura in una nuova forma di arte pubblica.
Da ”Green Architecture”, Taschen Verlag, 2000

Oggigiorno, un progetto di arte pubblica di successo non dovrebbe essere trattato come un oggetto ubicato nell’ambiente, ma va piuttosto interpretato come l’ambiente. In questa prospettiva, l’arte può svolgere una funzione integrativa nel contesto urbano e suburbano. Può mutuare il suo contenuto comunicativo da ciò che la circonda. Può sovvertire, trasformare, commentare e mettere in discussione il significato di tutte le onnipresenti convenzioni sul design associate all’architettura, all’architettura paesaggistica e alla progettazione urbana. È quindi necessaria una nuova “sensibilità all’ambiente” da parte dell’artista, ovvero un concetto molto più inclusivo di arte pubblica.
Public Art Review – James Wine4s – ‘Integrative Thinking’ (essay) – Fall/winter edition - 2008

Arte pubblica, architettura, paesaggio e spazio urbano possono integrarsi pienamente soltanto se le loro definizioni accademiche vengono messe in discussione e se vengono scardinate le distinzioni che ne fanno entità separate, rendendo difficile distinguere dove comincia una forma d‘arte e termina l‘altra.
Da Public Art Review, ‘Integrative Thinking’, Fall/winter edition, 2008.

SITE si accosta alla progettazione degli spazi pubblici come se si trattasse di un ecosistema vivente. Una delle principali motivazioni che ci spingono a creare ambienti è il desiderio di includere le persone in qualità di ‘elementi fisici’ connaturati nel processo di progettazione, quasi alla stregua di attori sul palcoscenico. Questo approccio esprime la nostra adesione all‘“architettura prostetica”, che vede negli occupanti un elemento imprescindibile del processo di costruzione, quanto la muratura, il vetro, l’acciaio e il paesaggio. A differenza di molti architetti, che ad esempio escludono le persone dalle fotografie dei loro edifici in base al solito ragionamento ‘Non sia mai che la presenza di esseri umani possa distrarre l’attenzione dalle qualità scultoree della mia architettura’, noi di SITE cerchiamo coscienziosamente di includere i partecipanti nelle immagini dei nostri edifici e dei nostri spazi, per dimostrare quanto siano necessari per un‘esperienza sociale ed estetica completa.
Da Catalogue for the Victoria and Albert Museum Post-Modern Exhibition in 2011, ‘Arch-Art’ (Foreword essay) – (not yet published), 2010.