area 109 | art and architecture

architect: George Tsypin

In teatro, nulla conta più dello spazio. In un mondo dominato, a livello visivo, da immagini piatte proiettate su schermo al cinema, in tv, su computer, il teatro rimane l’unico luogo in cui la rappresentazione avviene in uno spazio. La mia formazione da architetto rimane ancora oggi la fonte di ispirazione primaria per il mio lavoro; quando infatti studiavo alla facoltà di architettura a Mosca si annoveravano ancora tra gli insegnanti alcuni esponenti dell’avanguardia russa; in alcuni casi, all’ovest, alcuni dei nomi più importanti del settore erano confinati a modellare la creta nella sezione “scultura”. All’inizio del ventesimo secolo, molti architetti appartenenti all’avanguardia russa progettavano per il teatro, erano queste infatti in molti casi le uniche costruzioni che venivano effettivamente realizzate. Il palcoscenico era per questi artisti una sorta di laboratorio in cui sviluppare nuove idee. Le scoperte fatte in quel periodo, non solo hanno gettato le basi per ciò che è diventata l’arte scenografica moderna, ma hanno spesso ispirato anche la stessa architettura.
Vi è un legame che va rafforzandosi da anni tra l’architettura e la scenografia; la prima tende a divenire sempre più effimera, temporanea e dinamica spostandosi sempre di più verso l’universo dell’intrattenimento e della pubblicità, gli edifici divengono sempre più “eventi” piuttosto che monumenti e ben presto si dirà che una costruzione è stata “diretta” da un determinato architetto anziché “progettata”. Nell’arte scenografica vengono spesso utilizzati luoghi all’aperto, spazi e materiali tipici dell’architettura. A vincere i concorsi sono solitamente gli architetti in grado di proporre progetti che più si avvicinano alla metafora teatrale. Se i costruttivisti russi di inizio secolo utilizzavano il teatro come fucina per nuove idee in campo architettonico, i loro discendenti decostruttivisti, tra cui Gehry, Libeskind e Zaha Hadid sono maggiormente attratti dal mistero e dalla dimensione spirituale del teatro. Questi architetti hanno lavorato a grandi progetti in campo operistico. Personalmente cerco di trovare nel mio lavoro la più potente e piena espressione di queste due tendenze. Sia nel progetto per West Side Story in scena a Bregenz che nell’opera “L’anello del Nibelunghi“ di Amsterdam, l’architettura e il teatro, nel tentativo di distruggersi a vicenda, danno origine alla forma più moderna di “architettura scenografica”.
L’orchestra è stata tolta dalla tradizionale buca, la scenografia è stata proiettata fin dietro le quinte. Eliminata la loro sede-ancora, gli orchestrali si posizionano direttamente sul palco o vanno addirittura a confondersi tra il pubblico. Gli stessi spettatori, in alcuni settori, si ritrovano a sorvolare il palcoscenico, con elementi della scenografia che vanno ad occupare la platea e le quinte, vanno a sbattere contro le pareti, sfondano il soffitto ed entrano nel pavimento. I cantanti sembrano a momenti vicini, quasi fossero i protagonisti di un primo piano cinematografico, quindi riappaiono come in un campo lungo a più di trenta metri di distanza. L’immaginazione porta lo spettatore fuori, in strada, negli inferi, nello spazio. Le scenografie da me progettate sembrano troppo grandi per il palcoscenico, tanto da doversi far posto squarciando le pareti, in uno scontro continuo con l’architettura che dovrebbe contenerle. Subiscono un processo di distruzione e, contemporaneamente, di ricostruzione; come se il progetto fosse un tentativo di irrompere in un altro mondo. Le mie scenografie sono anti-teatrali, non-flessibili, complicate.  Le composizioni architettoniche sembrano spesso congelate nel tempo, eppure esiste una tensione diversa: quella dello spazio che risulta costante e inesorabile. È come se il tempo si fermasse e si entrasse in un regno diverso, è come effettuare uno spostamento temporale orizzontale. Il racconto non è più possibile; ci si deve muovere verticalmente lungo la linea della coscienza. Nell’opera il movimento verticale è il più importante, la verticalità è spiritualità. Van Gogh dipinse alberi che si elevavano al di sopra delle stelle e di questi disse che gli comunicavano l’ambizione di raggiungere il cosmo. Mi è stato detto che, secondo l’alchimia cinese, il mio elemento è il legno, un materiale flessibile e resistente al tempo stesso, che cresce come un albero, che non smette mai di espandersi, solitamente verso l’alto. Spostare l’azione e farla sollevare dal suolo nell’opera rappresenta una sfida, i cantanti infatti amano il suolo, è la certezza di cui hanno bisogno per poter produrre suoni. Eppure, quando il coro viene sollevato da terra si assiste ad un effetto simile al librarsi in volo. In teatro si può vincere la forza di gravità. L’energia scorre verso l’alto. Gli oggetti volano, anche quelli più pesanti. Nelle icone russe, i santi hanno le sembianze di persone comuni ma sono circondati da un’architettura surreale e illogica, tanto che qualcuno in passato ipotizzava che i realizzatori di tali opere non conoscessero la prospettiva o fossero semplicemente naïf. Se si analizzano le icone da vicino tuttavia, si arriva alla conclusione che tali architetture così complesse, non possono essere state dipinte per sbaglio ma stanno a dimostrare il carattere ultraterreno della raffigurazione. È abbandonando ogni elemento razionale, a carattere illustrativo o letterale che ci si avvicina alla dimensione spirituale, irrazionale dello spazio. Quando si elabora un modello si deve dar sfogo alla propria intuizione e lasciare che le mani lavorino. Nell’arte militare giapponese, i guerrieri abbandonano la razionalità e riescono in tal modo ad anticipare le mosse del rivale; ecco perché la lotta tra due maestri si trasforma in una danza, teoricamente senza fine, ognuno si muove guidato unicamente dalla propria intuizione. Qualcosa di simile avviene se si lascia che le proprie mani scolpiscano lo spazio seguendo un modello. La progettazione per me è la ricerca di questo meccanismo formale nascosto, la melodia scultorea dello spazio. Mi ritrovo costantemente a dover eseguire una esplorazione formale simile nelle mie opere scultoree.
Design e scultura si alimentano a vicenda. Scultura significa poter costruire un modello, senza le costrizioni dello spazio teatrale concreto; è il tentativo di conquistare ulteriore spazio che, una volta in teatro, rimarrà solo nella nostra immaginazione. La scultura rappresenta una forma di ricerca di soluzioni di utilizzo dello spazio, di materiali, per l’uso della luce e degli oggetti reali. Ritengo che il modello sia in sé un’opera d’arte autonoma, con una propria integrità. Nella scultura o nella costruzione di modelli utilizzo il vetro, l’acciaio, il legno e la pietra. Le mie sculture sembrano essere abitate da personaggi invisibili o da strane creature leggendarie che tuttavia compariranno solo in un secondo momento…in scena. La sensazione che voglio far provare al pubblico è quella di una salita vertiginosa all’interno della torre a spirale, grazie alla forma che si protende verso l’alto, squarciando il cielo, la torre deve ben rappresentare lo spirito cristallizzato, tuttavia la sua dinamicità, potente come un lampo, rappresenta più di quel che è, ovvero la trasformazione della coscienza umana.

George Tsypin è scultore, architetto e designer di teatro, film e video. Ha vinto il concorso internazionale ”Nuove idee per il teatro per le nuove generazioni” circa venti anni fa. Da allora la sua opera ha fatto il giro del mondo inclusi il Festival di Salisburgo, l’Opera de Bastille di Parigi, il Covent Garden di Londra, il teatro La Scala di Milano e il Metropolitan Opera a New York. La sua prima mostra personale risale al 1991 alla Twining Gallery di New York, mentre nel 2002 partecipò alla Biennale di Venezia. Ha disegnato ”The Little Mermaid” a Broadway. Il suo libro ”George Tsypin Opera Factory: Building in the Black Void” è stato pubblicato dalla Princeton Architectural Press nell’ottobre del 2005 (Golden Pen Award).